L’odore della pioggia

di Graniardet

Sarà questo odore di pioggia, sarà stato ritrovarsi seduto al solito vecchio e logoro tavolino del bar che da anni mi attende silenzioso e rassegnato.
Tutto è cambiato: i colori delle pareti, i profumi nell’aria, i rumori della strada; solo lui rimane ostinatamente sé stesso. A volte mi perdo osservandolo e a mia volta mi sento osservato dagli astanti, penseranno che sono un povero vecchio perso nelle nebbie che confondono i pensieri. Se solo sapessero. È così lucido il mio ricordo, nitido, così vivo e presente.
Le mie mani ruvide, devastate dall’artrite, sanno ancora riconoscere i suoi solchi, le sue rughe, provocate spesso dalle partite a scopa che sapevano accendere gli animi più delle partite di pallone.
Oggi nulla è come allora.
Mi guardo intorno e non sento più il suono delle voci amiche, non vedo i volti cari, persino il vino ha perso il sapore genuino di una volta. Sono rimasto l’unico testimone del tempo che fu.
Saluto distratto e mi ritrovo per strada senza accorgermene. Cammino ripensando a quel giorno.

La città era bollente e io, ragazzino, me ne stavo rintanato nel bar, osservavo i grandi e mi ammaliavo innanzi a quel desiderio di riscatto sociale così sincero, quelle discussioni tese che gonfiavano le vene del collo e a volte incrinavano la voce. Imparai anche a rispettarti, non tanto per il consueto gesto di spettinarmi i capelli, quello lo detestavo, ma perché capivo che intorno alla tua figura così dritta e slanciata c’era un alone di coerenza e rettitudine molto rara in quei tempi così straziati dalla miseria e dalla fame. Quando arrivavi avevi un sorriso e una parola di conforto per tutti, spesso ti si chiedeva opinione sui cambiamenti e sul fermento cittadino, ti schiarivi la gola e parlavi, e quando tu parlavi tutti ascoltavano. I tuoi ideali erano talmente privi di interessi personali che solo uno stolto non ti avrebbe saputo stimare.

In quella giornata calda entrasti e mentre sedevi e colloquiavi a bassa voce con l’oste sentii dalla strada gridare «A morte Picelli! A morte!»
Le tendine si aprirono tintinnando, entrarono i tuoi compagni ansimanti, cercarono di convincerti: «Esci dal retro Guido, la Signora ti farà passare.»
Loro ti aspettavano fuori, tu impassibile finisti di bere il tuo bicchiere in un solo sorso, lanciasti uno sguardo fattosi pietra a tutti, fu come se avessi arrestato il tempo: tutto si fermò, l’unico rumore erano le grida roche dei tuoi boia. Ti ricomponesti i capelli e indossasti il tuo amato cappello.
Ninè si attaccò disperatamente al tuo braccio, lo scansasti malamente e poi le tue parole sferzarono l’aria, come il frastuono del fulmine: «Mi a vagh a ca’ dedchì
Uscisti. Io ebbi paura e portai le mani agli occhi, mi dissero che ti parasti innanzi a loro impassibile, solo chi ben ti conosceva notò il lieve tremore della mano. Il giovane sparò. Io emisi un grido e gli occhi furono inondati dalle lacrime, poi sentii l’eco folle della rincorsa.
Colsi la tua figura ancora in piedi, ti chinasti a raccogliere il cappello, lo osservasti, il foro del proiettile fumava ancora, io scappai a casa con la consapevolezza di non poter dimenticare mai più quel giorno: avevo avuto la fortuna di imbattermi nel coraggio, nella sua forma più essenziale e ne avevo già adosso i segni, quasi fossero un marchio inciso a fuoco sulla pelle. Quella sera a cena, se così si possono chiamare due cucchiai di polenta, non parlai, ma ascoltai le discussioni dei miei genitori.

Fu molto tempo dopo che riuscii realmente a capire la nobiltà di quella frase detta in dialetto e a denti stretti, quando seppi realmente ciò che accadde in quegli anni, quando riuscii a dare un senso a tutti quegli scontri, ti risentii così vicino da rimpiangere quella forte mano che mi squassava il capo.
In qualche occasione mi sarei anche potuto vantare di averti conosciuto, ma il tempo passò per me veloce: cominciai a lavorare, indossai i pantaloni lunghi, mi innamorai e in una giornata di pioggia, ritrovandomi al solito tavolo del bar, seppi della tua morte. Così lontano da casa, dopo tutti quegli anni tribolati e torturati dai sacrifici e dalle umiliazioni, in costante ricerca della giustizia e libertà che troppo si facevano attendere.
Molti sostenevano che al cuore ti colpì il fuoco amico e a questo pensiero non ressi: ebbi l’immagine di te straziato nel fango e improvvisamente diventasti così piccolo, così piegato, un cumulo di stracci fradici.
Cosa rimaneva di quell’uomo dallo sguardo profondo? Di quei capelli sempre perfettamente impomatati? Cosa? La mia frustrazione spezzò il bicchiere che inflisse al nostro povero tavolo la cicatrice che a tutt’oggi rimane la più visibile.

Eccomi qui ora, i piedi hanno seguito la volontà del cuore, mi hanno portato davanti al tuo volto, ecco cosa è rimasto di quell’uomo. Rileggo la targa: ti è stato riconosciuto il tuo valore, tardi forse, alcuni hanno persino fatto polemica il giorno in cui il tuo mezzo busto fu collocato in questa piazza. Ti at si pasè dedchì! avrei aggiunto.

Sospiro, ormai stanco. Sarà stato questo odore di pioggia, sarà che da troppo tempo non sento pronunciare il tuo nome, sarà che ho le ossa stanche, ma oggi io la pioggia la sento ancora. Oggi mi piove sull’anima.

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