Questione di giga o di morte

di Gabriella Ierone

<<Ti prego, ci possiamo vedere? Devi aiutarmi!>>
<<Giada, è semplicissimo, basta che…>>
<<No Ricca, lo sai che sono negata per queste cose! Il concerto è domani!>>
Non si poteva dire che Riccardo fosse un ragazzo sagace. Lo conoscevo da anni. Alle superiori, durante le lezioni, passava la maggior parte del tempo a guardare fuori dalla finestra. Non so come fosse riuscito a saltarci fuori con gli esami. Verso la fine dell’ultimo anno, i suoi voti rasentavano quasi tutti l’insufficienza e Costanza, sua mamma, mi aveva pregata che lo aiutassi a recuperare. Non che io fossi una studentessa modello, ma avevo una media del sette e questo la faceva ben sperare. Qualche volta era capitato che andassi a casa sua per studiare insieme, ma Riccardo non mostrava nessun interesse verso quello che cercavo di spiegarli. Gli ripetevo inutilmente che avrebbe dovuto ascoltarmi con più attenzione e lui mi rispondeva sempre nello stesso modo “ma ti sto ascoltando!”, mentre si perdeva nel riparare un nuovo aggeggio tecnologico che gli era capitato tra le mani. Dire che fosse un appassionato di tecnologia era riduttivo. Sulle mensole della sua stanza non aveva libri, ma un’infinita collezione di cellulari, computer, smartwatch e qualche altro arnese di cui ignoravo esistenza e utilità. Non era una cima a scuola, ma bastava che prendesse in mano qualsiasi oggetto contenesse un chip che si trasformava nel Elon Musk della situazione. Io, invece, non ero stata nemmeno in grado di sostituire la batteria del “Mio caro diario”, che avevo lasciato morire in qualche cassetto chissà dove, figuriamoci se sarei riuscita a fare il backup del mio cellulare! Era una cosa che continuavo a procrastinare da troppo tempo ormai, perché di backup dell’iPhone non ci avevo mai capito niente. Sarà stato pure un marchio prestigioso, ma per me era altrettanto complicato da gestire. Con i suoi ridicoli sessantaquattro gigabyte, dovevo assolutamente liberare maggior spazio possibile in vista del Roma in Music, ma soprattutto per l’esibizione dei miei amatissimi Subsonica. Erano mesi che aspettavo quel momento. Essendo un festival gratuito, sapevo che tutti avrebbero anelato a raggiungere le prime file, così nelle settimane che precedevano il concerto mi ero preparata a dovere. Ogni giorno mi alzavo di buon’ora, quando in giro non c’era ancora nessuno che mi potesse prendere in giro, scendevo di corsa per strada e facevo due giri del quartiere. Ogni tanto alternavo qualche scatto di velocità, propedeutico per lo sprint finale verso il palco. Gli avrei spiazzati tutti, ne ero certa.  Al gran giorno mancavano ventiquattro ore. Mi era rimasto pochissimo tempo e Riccardo era la mia unica salvezza. Era sempre stato un ragazzo poco socievole ed ero la sua unica amica. Odiava le persone prive di originalità che imitano pedissequamente tutto quello fanno gli influencer del momento, e io per Riccardo mi distinguevo dalla massa. Da una parte era vero, ma se mi tenevo alla larga dal PC, che usavo solo per leggere le mail, era solo per il mio pessimo rapporto con la tecnologia. Non mi ero nemmeno iscritta a Facebook o Instagram, ma solo perché ero convinta che le app mi avrebbero inevitabilmente intasato il cellulare. Però mi piaceva che lo pensasse. Così, a parte per le infinite foto e video di concerti a cui ero stata, lo utilizzavo solamente per lo scopo per cui era stato realmente creato, nel lontano 1973: telefonare. Riccardo invece era l’emblema dell’originalità. Non gli importava della moda, indossava solo indumenti che, in base al suo modesto parere, avevano un influsso positivo sul suo umore. Certe volte andava in ufficio con degli abbinamenti di colore che avrebbero fatto inorridire Rossella Migliaccio, se l’avesse incontrato per strada. Una cosa che trovavo singolare e che mi faceva sempre sorridere, era il fatto che utilizzasse termini ormai in disuso che non avevo mai sentito prima. Come quando quella volta, durante la lezione di storia, mi chiese di passargli il lampostyl, anziché il pennarello. Oppure quando mi chiedeva il lapis, al posto della comunissima matita. Manco fossimo nel sedicesimo secolo! Molti lo prendevano in giro, ma Riccardo non se ne curava ed era una cosa che mi piaceva molto del suo carattere. Fu impegnativo convincerlo a vederci. Negli ultimi anni le sue uscite si erano quasi azzerate e la pandemia gli aveva dato il colpo di grazia. Nonostante avessero dichiarato, sette mesi prima, che lo stato di crisi fosse rientrato e che l’obbligo di indossare la mascherina era stato finalmente abolito, Riccardo non usciva mai senza, come se nulla fosse cambiato.
<<Dai Ricca! È questione di giga o di morte!>>
<<Okay, okay…ho capito. Vieni da me domani prima del concerto. Dovremmo farcela in un’oretta. Sarò a casa per le sei. Ma ad una condizione: stiamo in giardino con la mascherina>>
Avevo accettato le sue condizioni, nonostante sapessi che sarei stata stretta con i tempi. Ma era la mia unica speranza. Mi svegliai di buon umore e per tutto il giorno non riuscii a pensare a nient’altro. Al bar lo avevo raccontato a ogni cliente che servivo. E alle 16:00 stavo già salutando tutti in fretta e furia. Saltellante urlai un “Io vado!” generale, aprii la porta d’ingresso senza badare al cliente che stava per entrare. C’era mancato poco che non gli finissi addosso. Mi scusai e continuai spensierata verso il parcheggio. Mi catapultai a casa. Erano le 16:30 e l’adrenalina iniziava a farsi sentire. Aprii l’armadio e mi misi alla ricerca del mio classico outfit da concerto: t-shirt nera The Rolling Stones e jeans strappati. Una volta avevano un posto d’onore, nell’anta centrale, su un ripiano riservato. Invece, causa pandemia, li avevo lasciati sedimentare per due lunghissimi anni, sotto una caterva di tute da casa. Infilai nello zaino, mascherina, pc, cellulare, bandana e una felpa che, con tutta la gente che avrei avuto intorno, come al solito, non avrei indossato, e mi fiondai in macchina. Per arrivare da Riccardo solitamente ci impiegavo mezzora, ma nell’ora di punta il tempo raddoppiava sistematicamente. Alle 18 spaccate ero davanti al suo cancello.
<<Sono io! Apri!>>
<<Che puntualità Giadina! Non è da te!>>
L’essere puntuale non era mai stato il mio forte, ma quando si trattava di concerti ero un orologio svizzero. Con la flemma che lo contraddistingueva, Riccardo mi raggiunse in giardino. Collegò il cellulare al pc e, mentre impostava tutto per lanciare il backup, mi parlava della tecnologia del nuovo sistema di sorveglianza di ultima generazione che l’azienda per cui lavorava aveva implementato. Continuavo ad annuire, facendo finta di essere interessata all’argomento, mentre il mio unico pensiero era quello di alzarmi dalla sedia e andare via il prima possibile. Ci stava mettendo troppo. Mancava solo un’ora all’apertura dei cancelli. La mia ansia aumentava.
<<Ricca non è che potresti accelerare?>>
<<Non sono io quello che ha ancora uno smartphone con sessantaquattro giga di memoria! Se stessi al passo coi tempi…>>
<<Ho capito! Continua ti prego!>>
Lo interruppi prima che mi facesse la solita ramanzina su quanto fosse obsoleto il mio cellulare. Nel frattempo, prenotai un taxi, sperando nell’esattezza delle tempistiche previste per il backup. Dopo venti minuti di sofferenza, finalmente Riccardo ne decretò la fine.
<<Grazie Ricca, puoi tenermi il pc? Lo passo a prendere domani, promesso!>>
<<Lasciamelo pure questo “muletto”, lo ritroverai come nuovo!>>
<<Fai di quel coso ciò che vuoi!>>
Mi congedai e nei minuti che precedevano quella che sarebbe stata una corsa contro il tempo, cercai di cancellare più foto e video possibili. Poco dopo, il taxi accostò, entrai e fui presa dalla tentazione di dire “Segua quella macchina!”, come nei film polizieschi. Ma mi limitai ad un “all’Olimpico per favore. Conosce delle scorciatoie?”, anche perché non c’era nessuna macchina da inseguire ed ero solo in un ritardo pauroso. Per fortuna mi era capitato il Lewis Hamilton dei tassisti. Recepita la mia urgenza, nel percorso per arrivare all’Olimpico si destreggiava abilmente tra una macchina e l’altra, tentando di recuperare terreno. Quell’uomo doveva aver lavorato alacremente giorno e notte per anni nel trasportare su e giù persone per le vie più impervie di Roma. Arrivammo un minuto prima dell’apertura dei cancelli. Pagai e corsi verso l’ingresso. Non mi fermai. Li avevano aperti. Corsi più veloce di Manuela Levorato nella finale dei 100 metri e conquistai la prima fila. Controllai la scaletta sul sito del fan club, le sapevo tutte. Misi la bandana con il loro nome, l’avevo comprata all’MTV DAY del 2005. Ero pronta.  Finalmente il presentatore stava per annunciare il gruppo della serata. Il cuore mi batteva a mille all’ora. La musica in sottofondo, nonostante non la conoscessi, mi fece venire la pelle d’oca. Mi sentivo elettrizzata.

<< Signori e signore, fate un grandissimo applauso ai…N E G R I T A A A A A!!!>>
<<Ma…che…cosa?>>
Avevo sbagliato serata.

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