937 Miglia

di Massimiliano Renaud

 

Tribunale di Mantova, 26 Luglio 1961

 Entrai in aula accompagnato da un agente di polizia. L’avvocato difensore mi aspettava in piedi, cercando di ostentare sicurezza tenendo lo sguardo fisso nel mio, forse per tentare di infondermi tranquillità. I cannoni ottici dei fotografi ronzarono all’unisono e mi misero a fuoco. Quando il loro obiettivo fu centrato, uno scroscio di click si rovesciò nell’aula del tribunale coprendo il brusio dei numerosi curiosi, accorsi ad ascoltare la sentenza del processo Ferrari.
Il trillo della campanella zittì il vocio e annunciò l’ingresso del giudice.
“Ti rendi conto? Tre mandati di comparizione…”
“Mi rendo conto, sì…”
“Mi hanno ritirato il passaporto! Come se fossi una spia, un terrorista!”
“Stai tranquillo, Enzo, vinceremo, lo sai anche tu.”
“Non sono più sicuro di niente…”
“In piedi!”
Tutti i presenti si alzarono ad accogliere il giudice.
Io smisi di parlare e concentrai tutte le forze psichiche che mi restavano sulla sentenza che avevo atteso per quattro, interminabili, anni.

“[…] Orbene, tutti gli assunti difensivi e tutte le spiegazioni logiche e tecniche fornite dal Ferrari e dall’Englebert, nonché dai loro collaboratori e dipendenti, hanno trovato piena conferma nella esauriente e motivatissima relazione dei periti Capocaccia, Casci e Funaioli, tecnici e docenti di indiscussa fama e capacità specifiche, e in particolar modo non legati da alcun diretto interesse con l’imputato o con la ditta belga. Ne consegue ex articolo 378 e 152 S.P.P. che il Ferrari deve essere immediatamente mandato assolto dal reato ascrittogli, in conformità alle richieste del PM, per non averlo commesso. Ex articolo 622 e seguenti. Vanno restituiti al Ferrari tutti i reperti caduti in giudiziale sequestro”.

Con queste parole, fui prosciolto dall’accusa di omicidio colposo plurimo, per i fatti risalenti all’edizione 1957 della Mille Miglia. Tirai un gran sospiro, strinsi la mano al mio avvocato e uscii dall’aula accompagnato dagli applausi dei presenti, senza dire una parola.
Erano quattro anni che aspettavo quel momento, nutrendo la segreta speranza che una volta ottenuta l’assoluzione da parte della legge la mia coscienza si sarebbe sentita più leggera ma,
anche dopo la sentenza, mi resi conto che quel peso sul cuore mi avrebbe tormentato fino alla fine dei miei giorni.

Lo ricordo come se fosse ora, tutto era iniziato il giorno in cui Alfonso De Portago si era presentato puntuale sulla soglia del mio ufficio. Volevo lui a tutti i costi, per quella gara, e il suo cuore di pilota non si fece certo pregare. Fon era un eccentrico, un personaggio unico, un pilota velocissimo, un mezzo pazzo.

Sulla soglia era apparso un uomo di discreta statura, la giacca a scacchi bianchi e neri come quelli delle bandiere che sventolano al traguardo, i pantaloni stretti di velluto, le scarpe di vernice, un foulard avvolto sul collo e gli occhiali scuri calati sugli occhi. Ma, nonostante l’aria sicura al limite dell’arroganza, il giovane pilota aveva avuto un attimo di esitazione nel vedermi ad attenderlo.
Lo studio era praticamente vuoto, fatta eccezione per due oggetti posati sulla mia scrivania: un mappamondo e una statuetta raffigurante il Cavallino Rampante.
Lungo una delle due pareti lunghe c’era il tavolo delle riunioni, conosciuto da piloti e dipendenti della scuderia come il tavolo del terrore. Perché era proprio attorno a quel tavolo che, dopo ogni gara, esaminavo gli eventuali errori commessi durante la corsa e prendevo provvedimenti nei confronti dei colpevoli.
“Alfonso! Vieni avanti, accomodati.” Avevo detto sorridendo.
“Buongiorno, signor Ferrari, grazie.”
“Come stai?”
“Non posso dire che me la passo male.”
“Perché guardi da quella parte? Quel tavolo ti fa paura?”
“Diciamo che preferisco incontrarla seduto su una di queste poltrone, piuttosto che intorno a quel tavolo.”
“Solo chi commette errori deve temerlo. E poi, da quella sedia ho anche pronunciato molti elogi.”
“Spero di avere, un giorno, l’opportunità di potermeli meritare anch’io, quegli elogi.”
“Tutto può succedere, Alfonso, basta volerlo.”
“Volere è potere è un motto che mi appartiene, signor Ferrari”
Avevo fatto una pausa ruotando la sedia in direzione dell’armadio degli errori, una vetrinetta in cui collezionavo pezzi difettosi, mal fabbricati o che, durante qualche corsa, avevano prodotto effetti nefasti. Ero e sono uno sperimentatore, ed è per questo che sono costretto a credere ciecamente nel motto “sbagliando s’impara”. Ecco perché tenevo e tengo da sempre in bellavista, davanti a me, tutti i miei fallimenti.
“Sai perché ti ho fatto chiamare?”
“No. Tavoni non mi ha detto nulla.”
“Per darti quella opportunità.”
Il marchese aveva deglutito e si era lasciato scappare un mezzo sorriso.
“Vuoi correre una gara per me, Alfonso?”
“Certo che lo voglio.”
“Allora ascoltami, tu devi correre sulla strada.”
“Sulla strada?”
“Sì, perché sulla strada si impara a improvvisare, a reagire agli imprevisti e a controllare i brividi di paura. Sulla strada si diventa grandi piloti, Fon. E se arriverai in una posizione degna della Scuderia Ferrari, potrai continuare a guidare una Formula Uno, ma nella squadra ufficiale.”
“Quindi, a quale gara sta pensando?”
“Alla Mille Miglia, naturalmente.”
“Perché proprio la Mille Miglia?”
“Perché è la gara che ha costretto l’industria automobilistica a studiare automobili adatte a una prova così impegnativa. Perché è la più difficile. Perché è la più bella di tutte.”
“Che auto vuole darmi, la Berlinetta?”
“Voglio darti la Sport.”
Un nuovo sorriso si era impresso sulla bocca di De Portago.
“Allora sarò alla partenza, signor Ferrari.”
“Trovati un copilota.”
“Ce l’ho già, sarà Edmund Nelson, un amico giornalista americano, così potrà scrivere una bella storia…”

Eh già, non c’era voluto molto per convincerlo, d’altra parte, quale pilota non vorrebbe guidare una Ferrari?
E lui, che una Ferrari l’aveva già guidata, sapeva bene cosa volesse dire.
Eppure c’è gente che mi considera ancora un assassino, un invasato senza scrupoli che usa piloti come agnelli sacrificali, in nome di uno scranno nell’olimpo dei motori. Ma io non ho mai minacciato nessuno per farli correre nella mia squadra, anzi, sono i proprio i piloti che vengono a pregarmi di guidare una delle mie automobili.
Alfonso, poi, era uno spirito libero, uno che per scommessa è passato in aeroplano sotto le arcate di un ponte, uno che è stato capace di arrivare quarto alle olimpiadi invernali a bordo di un bob. E, soprattutto, uno che non si è mai lasciato costringere a fare nulla che non volesse fare.
Ma, nonostante tutto, ci sono giorni in cui non riesco a non darmi la colpa, per quello che è successo quel pomeriggio del 12 maggio 1957.

Brescia, 12 Maggio 1957 – Ore 4.15

La sveglia suonò alle quattro e quindici minuti, la punzonatura del giorno prima gli aveva affidato il 531 che indicava, oltre al numero di gara, anche l’orario di partenza in viale Rebuffone.
Alfonso Antonio Vicente Eduardo Ángel Blas Francisco de Borja Cabeza de Vaca y Leighton, detto Fon, diciassettesimo marchese di Portago, si alzò lentamente dal letto e trascinò i piedi fino al bagno. Riempi la vasca d’acqua gelida e vi si lasciò cadere dentro, per cercare di velocizzare il risveglio dalle poche ore di sonno che la baldoria della notte prima gli aveva lasciato a disposizione.
Appena il tempo di asciugarsi e qualcuno bussò alla porta della stanza.
“È aperto.”
“Buongiorno, signor De Portago, sono venuto a prendere i bagagli.”
“Entra pure, mi serve ancora qualche minuto. Anzi, perché non mi dai una mano? Passami i pantaloni.”
“Sì certo signore. Ecco qui.”
“Anche la camicia e la giacca, per favore.”
“Eccole qui, signore.”
Alfonso si vestì, infilò calze e scarpe e si avviò verso la porta della stanza portando con sé un piccolo beauty case in pelle di coccodrillo.
“Signore, i suoi bagagli?”
“Ho soltanto questo.” disse mostrando la pelle del rettile “lo spazzolino da denti è l’unica cosa indispensabile quando si viaggia. Il resto lo si può comprare.”
“Sì, certo, capisco.” Rispose il ragazzo, abbassando lo sguardo verso le scarpe che portava ai piedi ormai da quattro estati. “Oh, guardi, ha dimenticato la giacca di pelle!”
“Ah, quella? Adesso è tua. Appena la indosserai, vedrai che le ragazze ti si appiccicheranno addosso. E grazie dell’aiuto.”
“Gra…grazie a lei, signor De Portago.”
Il marchese strinse l’occhio destro e svanì silenzioso sul lungo tappeto che ricopriva il corridoio.
Nella sala ristorante, aperta a quell’ora apposta per loro, trovò ad aspettarlo il suo amico e copilota Edmund, eccitato quasi quanto lui dall’avventura che stavano per affrontare, e Romolo Tavoni, il direttore sportivo della Scuderia Ferrari.
“Edmund! Direttore!”
“Hai dormito bene?”
“Non troppo, ma bene.”
“Cosa posso portarvi, signori?” Chiese il cameriere che si era avvicinato al tavolo.
“Un caffè, per favore” ordinò Edmund.
“Due” rilanciò Tavoni.
“Per me un tè caldo, con qualche pasticcino. Grazie.”
Dopo aver ordinato la colazione i tre uomini restarono in silenzio, senza guardarsi, pensando probabilmente alle curve del percorso, al trofeo alzato al cielo dall’eroe di giornata, alla folla esaltata dal rombo dei motori, alla festa per una vittoria e alle lacrime per una sconfitta. E sulle loro teste, tutte quelle immagini sembravano prendere vita, sembravano passare da una mente all’altra e ogni mente sembrava aggiungere un particolare per far avanzare la storia a modo suo.
Poi, come se arrivasse da un altro pianeta, ricomparve il cameriere a distoglierli dai loro viaggi personali.
“Prego, signore.”
Il ragazzo allungò la mano che reggeva il vassoio proprio nell’istante in cui Alfonso mosse un braccio: la collisione fu inevitabile.
“Oh mio Dio.” Fu l’unica frase che uscì dalla bocca del cameriere.
Fon restò immobile a fissare le mattonelle di marmo bianco, coperte da una chiazza marrone che si dilatava fino a sfiorargli le scarpe.
“Ti sei scottato?” chiese Tavoni, preoccupato per l’incolumità del suo pilota.
“No, sto bene.”
“Allora cos’è quella faccia? Non è successo nulla di grave.”
“Al mio paese, direttore, rovesciare il tè porta sfortuna. Tanta sfortuna! E questa sarà una giornata infausta, ne sono certo!”
“Ma non dire sciocchezze, sono solo stupide superstizioni.”
Mentre il direttore sportivo tentava di minimizzare l’accaduto, Alfonso stava già scrivendo qualcosa su un foglio di carta.
“Ecco, tieni.”
“Cos’è?”
“Sono gli indirizzi di mia madre e mia moglie, è lì che dovrai cercarle se dovesse succedermi qualcosa.”
“Senti, Fon, adesso togliti dalla testa questi pensieri e concentrati sulla gara, mille miglia sono lunghe e difficili e tu hai provato il percorso una sola volta. Non puoi permetterti di pensare a nient’altro che non sia la corsa.”
“Penserò alla corsa, ma tu non perdere questo biglietto, te lo chiedo per favore.”

Brescia, 12 Maggio 1957 – Ore 5.21

Dieci minuti prima dell’orario fissato dallo starter, Alfonso de Portago ascoltava la melodia dei dodici cilindri nascosti nella sua Ferrari 335 S numero 531 fumando l’ultima sigaretta prima di partire.
Qualche foto con ammiratrici e ammiratori, una stretta ai laccetti del casco bianco ed ecco che fu chiamato il nome del Marchese. Fon, con un cenno di saluto alla folla acclamante, salì sulla ripida pedana in legno che lo avrebbe lanciato alla volta di Roma.

Le persone stipate ai bordi delle strade impedivano la vista del panorama e le tappe della corsa scorrevano veloci: in meno di un’ora il bolide rosso attraversò Verona, Vicenza e Padova.
Poco dopo le sette, Alfonso ed Edmund raggiunsero Ravenna, dove fu loro riferito di essere al quarto posto, alle spalle di Von Trips, Collins e Taruffi. Al quinto posto c’era il belga Olivier Gendebien, con due minuti di distacco. Tutti su Ferrari.
Dopo Ravenna, il serpentone rombante arrivò a Pescara, L’Aquila e infine a Roma.
Raggiunto il centro della Capitale, la Ferrari di De Portago decelerò bruscamente.
“Cosa succede?”
“Niente, Edmund, sono stato io.”
“Tu? Va tutto bene?”
“Sì”
“E allora? Bisogni fisiologici?”
“Più o meno.”
La 315S, intanto, si era quasi fermata vicino a un cordone di persone che facevano di tutto per cercare di accarezzare la carrozzeria rossa.
Tra la folla, Alfonso trovò la chioma bionda con cui si era dato appuntamento.
“Ciao, Linda.”
“Ciao, amore mio!”
Senza aggiungere nulla, Fon abbracciò e baciò la sua ultima bellissima fiamma: l’attrice messicana Linda Christian.
“Devo scappare, tesoro, stasera tornerò a prenderti a Roma con un regalo.”
“Tu sei irrimediabilmente pazzo, Alfonso.”
“Ci vediamo questa sera, adesso mi aspettano a Brescia”.
La donna, commossa da quel gesto di cavalleria, alzò la mano per salutare il suo romantico amante mentre un rombo di motore faceva scomparire la Ferrari in fondo al rettilineo.
“Abbiamo perso quasi tre minuti! Fon, questa è una corsa!”
“Tutta la mia vita è una corsa, Eddy, che differenza vuoi che facciano quei tre minuti.”
Il copilota sorrise e scosse la testa rassegnato.
Lasciata Roma, ad ogni tappa Fon cercava di avere notizie aggiornate sui distacchi e si informava in maniera ossessiva sulla posizione di Gendebien: in ballo c’era un posto da pilota ufficiale in Formula Uno e per aggiudicarselo sarebbe dovuto salire almeno sul podio.
Mentre percorreva curve e rettilinei a velocità impossibili in mezzo a un fiume di folla, il pilota belga, tuttavia, non era il suo unico cruccio: il pensiero di quel tè rovesciato proprio nel giorno della gara più importante della sua vita non gli dava pace.
Da gran pilota quale era, cercò di non pensare alla sciagura di quel mattino e si lanciò alla volta di Firenze, preparandosi ad affrontare i tratti più complicati per un’auto poco agile come la Sport: Futa e Raticosa.
Oltrepassati gli Appennini, arrivò finalmente a Bologna, dove fu proprio Enzo Ferrari ad attendere il team per aggiornarlo sui distacchi degli avversari.
“Fon, devi spingere di più, ormai ti ha preso.”
“A quanti minuti è?”
“Minuti? All’ultima rilevazione erano secondi, non minuti! Sulle montagne, Gendebien ha fatto un mezzo miracolo.”
Alfonso scagliò un pugno sul volante.
“Credo di avere un problema all’anteriore sinistra. La faccio vedere da un meccanico e riparto.”
“Ma quale meccanico! Tu pensa a correre, la gomma sta benissimo!”
Senza controbattere all’ordine, Fon ripartì sgommando e volò attraverso il monotono paesaggio della piana padana che, grazie alla maggior potenza del motore della Sport rispetto a quello della Berlinetta del belga, gli avrebbe consentito di scaricare a terra tutti i cavalli in dotazione al suo bolide rosso. Dopo Bologna, ci sarebbero state Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Cremona e Mantova, ed è lungo quell’eterno rettilineo che Fon contava di riacquistare tutto il vantaggio perduto sui tornanti tosco-emiliani.
Entrato in Lombardia con il vantaggio quasi del tutto riacquisito, e superata la città di Mantova, mancavano soltanto settanta chilometri al traguardo.
A tagliare la campagna mantovana, un rettilineo di cinque chilometri leggermente in discesa univa i paesi di Cerlongo e Guidizzolo, sulla provinciale Mantova-Brescia.

La Ferrari numero 531 fendeva l’aria a quasi trecento chilometri orari.
In vista delle prime case del centro abitato, Fon decelerò leggermente e impostò il prossimo curvone a destra. Da ottimo pilota di pista tagliò la curva per guadagnare qualche metro e quando ritrovò il centro della strada, passò su tre occhi di gatto posizionati sulla linea di mezzeria per separare le due carreggiate.
Sfortunatamente per lui, non poteva sapere che qualche ora prima dell’arrivo della corsa, il passaggio di un mezzo agricolo ne aveva danneggiato uno trasformandolo in una punta di acciaio acuminata.
L’auto proseguì fino all’altezza del Km 21 dove, con uno scoppio quasi del tutto coperto dal ruggito del motore, la gomma anteriore sinistra esplose.
Nelson fissò l’amico alla guida, ma dietro alle lenti scure degli occhiali non riuscì a coglierne l’espressione terrorizzata. Le mani che ghermivano il volante tentando disperatamente di far cambiare direzione all’automobile, però, gli fecero capire che la situazione era critica.

Guidizzolo, 12 Maggio 1957 – Ore 14.40

“Mamma! Papà! Andiamo?”
“È ancora presto, Giovanni, arriveranno fra più di un’ora!”
“I miei amici hanno detto che dobbiamo arrivare prima, altrimenti non troveremo posto sul ciglio della strada e non vedremo nemmeno una Ferrari.”
“La Ferrari? E cosa sai tu di queste Ferrari?”
“Sono le automobili più belle e veloci del mondo, mamma, come fai a non conoscerle?”
“Mi piacerebbe sapere che ti insegna queste cose.”
“Paolo, il figlio di Mario il meccanico. Dice che da grande farà il pilota di automobili!”
“Addirittura. Non credo che Maria sarà d’accordo, la conosco bene la mamma di Paolino e sono sicura che non lo lascerebbe mai scorrazzare per le strade su quegli aggeggi infernali.”
“E invece lo farà, ha già cominciato ad allenarsi con un carretto! Adesso andiamo? Mi stanno aspettando alla chiesa! Dai mamma, dai! Andiamo a vedere la Mille Miglia!”
Stremati dalle esasperanti pressioni del bambino, i coniugi Consato si chiusero la porta alle spalle e imboccarono lo stradello per la chiesa.
Sul sagrato, un agglomerato di giovani uomini e donne saltellanti si preparava all’arrivo della grande corsa. Decine di bandierine bianche, con stampato il logo rosso della gara, sventolavano sui bordi della strada disegnando un infinito serpentone nell’afosa pianura mantovana.
Giovanni, insieme alle sue compagne di scuola Carmen e Anita e alcuni altri bambini, si avvicinò alla provinciale sgattaiolando fra le gambe degli adulti e raggiunse la prima fila, giusto in tempo per sentire il rombo lontano della Ferrari 315 Sport di Piero Taruffi. Alcuni spettatori avevano un giornale fra le mani, e dopo aver letto i numeri di gara che sfrecciavano loro davanti, consultavano l’elenco degli equipaggi iscritti alla gara per riconoscere i modelli delle auto e dare un nome a quegli spericolati eroi.
Molti di loro, contadini e gente semplice, un’auto da corsa non l’avevano nemmeno mai vista.
I bambini non riuscivano a trattenere l’entusiasmo, e mentre correvano lungo la banchina ghiaiata, si beccavano i rimbrotti dei genitori preoccupati per le loro evoluzioni.
Taruffi imboccò il rettifilo che portava al centro del paese, e in meno di venti secondi era già arrivato ad affrontare il curvone verso destra che portava nella zona in cui stazionavano Giovanni e i suoi amici.
Il rombo del motore V12 della spider rosso fuoco fece tremare i vetri delle vecchie case e l’entusiasmo salì alle stelle: molti gridarono come impazziti salutando con le mani al cielo, alcuni addirittura si spaventarono e si allontanarono di qualche passo dal ciglio della strada.
Dopo il passaggio della Ferrari, l’uomo con il giornale annunciò fiero: Piero Taruffi, su Ferrari 315S!
Pochi istanti dopo, l’intera scena si ripeté con il sopraggiungere di Wolfgang Von Trips, che trovò il modo di fare un gesto con la mano verso la folla acclamante nonostante l’incredibile velocità con cui si era avvicinato all’ingresso di Guidizzolo.
L’uomo con il giornale fece sentire di nuovo la sua voce.
“Wolfgang Von Trips, su Ferrari 315S!”
Solo qualche istante di silenzio e l’urlo di un motore riempì di nuovo la campagna.

Guidizzolo, 12 Maggio 1957 – Ore 16.04

La Sport deviò verso sinistra, Fon tentò di correggere la traiettoria ma l’auto proseguì dritta, con il fondo che sputava scintille, verso un paracarro di pietra che venne scagliato a trenta metri di distanza.
Il missile rosso prese il volo senza smettere di emettere il suo rombo rabbioso almeno fino a quando non colpì, spezzò e fece crollare sulla strada un palo telefonico.
L’auto, completamente ribaltata, continuò ancora la sua corsa.
Il casco di Nelson strisciò per decine di metri sulla strada e non bastò ad evitare che buona parte del cranio venisse raschiata dall’asfalto.
Il corpo di Fon, quasi completamente fuori dall’abitacolo rovesciato, impattò contro i cavi telefonici appena abbattuti e venne tranciato di netto all’altezza della vita.
La 315S numero 531 mieté altre tre vittime, dopo le sei del primo impatto, e terminò la corsa nel mezzo metro d’acqua di un canale a duecento metri di sangue dal punto in cui era esplosa la gomma.

***

I bambini, completamente rapiti dal fascino della pazza corsa che andava in scena davanti ai loro occhi, avevano già imparato a riconoscere il suono del motore delle Rosse.
“Eccola! Eccola! Ne arriva un’altra!”
“È una Ferrari, sono sicuro, fa lo stesso rumore delle altre due.”
“Forse no, questo rumore sembra più forte.”
“Forse perché sta andando più veloce delle altre!”
Le giovani e attente orecchie non sbagliavano: quella che stava per arrivare era proprio la 315S di Alfonso de Portago.
Poco prima di vederla sbucare dal curvone all’ingresso del paese, a molti sembrò di sentire uno scoppio ma nessuno gli diede peso.
Un istante più tardi, comparvero i fanali rotondi di quella specie di razzo munito di ruote che, invece di puntare il centro della strada, si diressero minacciosi verso un paracarro di pietra che volò in un campo sul lato della provinciale.
L’auto si ribaltò, i bambini la guardarono alzarsi in volo verso di loro ma nessuno riuscì a muoversi, la paura li aveva resi di pietra.
Qualcuno chiamò la mamma, qualcun altro ruotò lo sguardo disperato alla ricerca del papà o di chiunque potesse portarlo lontano da quel mostro rosso che stava per cadergli addosso.
Quasi nessuno ebbe il tempo di mettersi in salvo e in una manciata di secondi, tutta quella modernità, tanto temuta dalle madri di Guidizzolo, si scagliò contro decine di esseri umani sgomenti che tentavano invano di sottrarsi alla catastrofe.

Guidizzolo, 12 Maggio 1957 – Ore 17.25

Il primo rappresentante della Scuderia Ferrari a raggiungere il luogo dell’incidente fu il direttore sportivo Romolo Tavoni.
Davanti a lui, Polizia, Carabinieri e alcune ambulanze che inghiottivano persone agonizzanti e partivano a sirene spiegate verso l’ospedale, che si trovava a cinque chilometri dal luogo dell’incidente.
La Sport era per metà sommersa dall’acqua, semidistrutta.
Incredibilmente lontano dall’abitacolo c’erano le gambe di De Portago mentre il busto era già stato prelevato per il riconoscimento. Il corpo di Nelson, invece, era ancora tutto intero, quello che mancava era buona parte della testa.

Modena, 13 Maggio 1957

Il giorno dopo la tragedia uscii dalla questura di Modena, dove mi ero recato per fornire la mia versione dei fatti precedenti all’incidente, ed entrai in un bar. Qualcuno mi salutò, da queste parti mi conoscevano tutti. Ordinai un caffè e mi avvicinai a un quotidiano steso su un tavolo.
Il titolo a nove colonne mi fece saltare un respiro:

La Mille Miglia, cimitero di bimbi e di uomini: BASTA!

Pagai il caffè e tornai di corsa a Maranello dove feci chiamare Tavoni, ordinando che si presentasse al più presto. Avevo bisogno di vedere una persona.
Romolo Tavoni si presentò qualche minuto più tardi a bordo della sua Motom 50.
“Sei in ritardo.”
“Non avevamo un appuntamento, ho fatto prima che ho potuto.”
“Andiamo, prendiamo quella. Guido io.”

“Posso sapere almeno dove siamo diretti?”
“Dall’abate.”
“A Cesena?”
“A Cesena.”

Arrivati al Monastero di Santa Maria del Monte, scesi dall’auto e chiesi a un monaco di poter parlare con don Alberto Chierici, l’abate del convento.
Volevo lasciare tutto, le mie auto, le corse, la velocità. E l’unica persona con cui avrei potuto parlarne era don Berto.
Camminammo per quasi un’ora intorno al chiostro, gli raccontai della Mille Miglia, dell’incidente, dei morti, dei bambini che avevano perso la loro acerba vita. Gli dissi che sarei tornato a produrre macchine utensili, con quelle non avrei fatto del male a nessuno.
Don Alberto mi ascoltò, quasi sempre in silenzio. Quando terminai il mio pietoso monologo si fermò, si voltò verso di me e mi fissò negli occhi, come quasi nessuno aveva il coraggio di fare.
“Tu hai ricevuto dei talenti, Enzo, cos’altro sai fare con altrettanta bravura e passione? Tu sai fare auto speciali e se smetterai, tante persone che lavorano per te ne soffriranno. Scappare, non è mai una soluzione. Devi andare avanti. E adesso, preghiamo…”

Grazie a don Berto non smisi di costruire auto da corsa ma dopo la tragedia di Guidizzolo, oltre alla vita di Fon, di Nelson e di tutte le persone falciate dalla mia Sport, persi anche la corsa più bella del mondo. Solo qualche giorno più tardi, infatti, la Mille Miglia, insieme a tutte le altre corse su strada, venne dichiarata illegale.

 

La moderna Mille Miglia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *