Fase 5 (liberi tutti)

di Massimiliano Renaud

 

Dopo il DPCM numero seimilaquattrocentoventotto diramato dal Governo, decadono le ultime fra le centinaia di restrizioni che per mesi hanno rinchiuso in casa gran parte della popolazione.
Da oggi, infatti, si potrà uscire di casa liberi di mangiare dove e con chi si vuole, di ubriacarsi abbracciando e baciando gente a caso e di avere ogni tipo di rapporto sociale senza mascherina o distanziamento.
Il popolo è in fibrillazione ma prima di archiviarle per sempre, un gruppo di amici sfrutta una delle principali eredità della quarantena per accordarsi sulle modalità del ritorno alla vita “normale”: la videochiamata.
 

“Ciao Ragazzi! Ci siamo tutti e quattro?”
“Io ci sono!”
“Presente!”
“Io vi sento ma non vi vedo!”
“Tony, ma la settimana scorsa non era il contrario?”
“Eh, sì, ma se ho una connessione di merda non è colpa mia!”
“Non importa dai, l’importante è che ci sentiamo! Allora, avete pensato a dove andare a sbragare?”
“Ecco, prima che cominciamo a fare progetti, vi comunico che io stasera non ci sarò…”
“Paolo, ma che cazzo dici?”
“Eh, dico che la videochiamata dovevamo farla ieri ma siccome l’abbiamo rimandata perché tu non potevi, mia moglie si è già messa d’accordo con le amiche per uscire a cena e io dovrò tenere la bambina…”
“Ieri ho dovuto lavorare in smart fino a tardi, mica potevo mandare a cagare il mio capo!”
“Enzo, non ho detto che dovevi mandarlo a cagare, ho detto solo che mia moglie mi ha fregato sul tempo per colpa del rinvio.”
“E adesso?”
“E adesso cosa? Adesso mi tocca stare a casa. E vi dirò di più, esco pure dalla chiamata perché non ho intenzione di sentire i vostri progetti sulla serata sapendo che io la trascorrerò sul divano a guardare, per la ventiduesima volta, Kung fu panda.”
“Dai Paolo, non fare così, almeno facciamo due chiacchiere! Paolo! Paolo!”
“Oh, Enzo, mi sa che Paolo ci ha già mollato…”
“Dio bono, che brutto carattere.”
“Però un po’ lo capisco, anche perché devo confessarti che sono più o meno nella stessa situazione.”
“No, Alberto, non fare lo stronzo. Non dirmi che non ci sarai neanche tu!”
“Se vuoi non te lo dico, ma…”
“Ma, cosa? Aspettiamo questo giorno da non so più neanche quanti mesi, che cazzo avrai da fare di più importante? La scusa della moglie non puoi averla, dato che all’ultimo aggiornamento non avevi neanche la morosa!”
“Infatti il problema è mia madre…”
“Tua madre? Non sta bene?”
“No, no, sta benissimo, ed proprio perché è in gran forma che mi ha chiesto se posso accompagnarla al Bingo con le amiche. Hanno duecentosettanta anni in quattro e nessuna di loro guida più da una vita.”
“Al Bingo? Proprio stasera? Non possono andarci domani? È vero che sono su con l’età, ma credo che un’altra notte la supereranno tutte!”
“Sì, lo so, ma non ce la faccio a dirle di no… Insomma, Enzo, è vero che dobbiamo divertirci, ma come si dice, la mamma è sempre la mamma…”
“Sì, ho capito ma…”
“No, Enzo, stavolta niente ma, non posso venire, ok? Mettiti d’accordo con Tony, che sta lì zitto zitto, vedrai che vi divertirete. Noi recupereremo la prossima volta. Adesso vi saluto ragazzi, vado a prepararmi. Ci sentiamo la settimana prossima!”
“Alberto! Alberto aspetta!”
“Non vi vedo, ma secondo me è già andato anche lui…”
“Cazzo, Tony, ma ti sembra possibile? Siamo segregati in casa da dei mesi e questi due stronzi ci danno pacco tre ore prima di uscire?”
“Enzo, cosa hai detto? Ti sento malissimo…”
“Ho detto che i nostri amici sono proprio due stronzi!”
“No nto ù niente! Eo! nzo! i enti?”
“Ti sento Tony! Male ma ti sento!”
“Ascolta nzo, non o ome dirtelo a no posso venire nean io.”
“Tony non capisco quasi niente! Cosa cazzo stai dicendo?”
“Stò endo che on posso nire stasera”
“Cosa? Ho capito male o stai blaterando che non ci sarai nemmeno tu? Ma siete tutti impazziti? Tony! Tony! Toooooony!”
Non posso crederci, è andato anche lui. Ma che amici di merda mi sono trovato?
Va bene essere dei nerd, ma come cazzo fai a non aver voglia di uscire di casa dopo una pandemia mondiale?
E va bene, allora sapete cosa vi dico? Andate tutti affanculo! Io a casa non ci sto, stasera esco, spacco il mondo e domattina vi chiamerò e vi prenderò tutti per il culo! Ve lo faccio vedere io cosa vuol dire godersi la vita!
Cercando di non pensare al vile tradimento degli amici, indosso bermuda, maglietta di Star Wars, infradito con bandierina brasiliana e scendo in garage a recuperare l’auto che mi accompagnerà nel mondo finalmente libero dal virus.

Dopo neanche trecento metri, puntuale come la pioggia nel tuo unico giorno di ferie, ecco la coda in tangenziale. Prendo una sigaretta, faccio scintillare l’accendino e penso, chissà perché, all’ultima donna che mi sono portato a letto: sembra passato un secolo.
L’abbinamento sesso-strada, generato involontariamente dal mio timido amico subconscio, accende una lampadina nel cervello e una, ben più luminosa, nella zona del cavallo.
In un attimo, il programma della serata si palesa come l’Arcangelo Gabriele e bastano solo quattro sillabe per enunciarlo: pro-sti-tu-te. Si, una donna è proprio quello che ci vuole, alla faccia di quei tre Giuda che mi hanno mollato da solo!
Con un cenno della testa auto-approvo la mia proposta, do l’ultimo tiro alla sigaretta e la butto dal finestrino proprio nell’istante in cui la coda abbandona la sua immobilità. La brace, grazie alla corrente generata dal movimento dell’auto, rientra con parabola perfetta dietro alla mia testa, mi frigge una ciocca di capelli e atterra sul sedile posteriore.
Un odore di insetto strinato in una lampada alogena riempie improvvisamente l’abitacolo, metto quattro frecce e scendo di corsa per tentare di salvare il salvabile. Estinguo il principio di incendio sputando sul sedile ma è troppo tardi, il cratere è cosa fatta.
Perfetto, direi che la serata è cominciata bene.
Vabbè, non mi farò certo scoraggiare da una stupidata del genere, stasera mi aspettano grandi cose!
Non faccio in tempo a sedermi al posto di guida che vengo stordito da una tempesta di clacson.
“Ma dove dovete andare così in fretta, eh? Va bene che non uscite da un po’, ma rilassatevi un attimo!” rispondo indispettito.
“Sali in macchina, sfigato!”
“Torna su quel catorcio e muovi il culo, sfigato!”
“Dai, sfigato, prendi quella carretta e levati dalle palle!”
Considerando l’intero pantone di coloriti insulti disponibili in lingua italiana, il fatto che tutti abbiano scelto lo stesso mi fornisce un argomento su cui riflettere, ma decido che questo non è il momento di mettersi a pensare e, dopo un cenno di scuse a testa bassa, riparto.
Bene, traffico infernale, insulti gratuiti, latente voglia di scopare e l’unico buco al momento disponibile è scavato dentro la morbida alcantara che si trova alle mie spalle. Qui urge una svolta o il mio ritorno trionfale alla condizione di “uomo libero” rischia di trasformarsi in tragedia.
La statale sembra meno frequentata, esco dalla tangenziale e apro appena il gas.
Un uomo in completo blu, con una stemma luminoso sul cappello, si allontana dall’auto perfettamente coordinata nei colori con l’abito che indossa ed estrae qualcosa di bianco dallo stivale: paletta.
Fanculo.
“Patente e libretto”
“Buonasera, agente”
“Non perda tempo, patente e libretto.”
“Certo signore!” Mi chino verso il cassetto dal quale sembra uscire un lieve sussurrio: “coglione.”
“Ha detto qualcosa?”
“No agente, parlavo da solo.”
“Aspetti qui.”
“Per forza, ha lei la mia patente.”
Che palle, sono mesi che giro con ste cazzo di autocertificazione e alla prima sera che non c’è più l’obbligo di averla mi tocca anche sopportare Il cattivo tenente. Ecco che torna.
“Tutto bene, agente?”
“Tutto a posto. Dove stava andando?”
“Mi scusi, ma non abbiamo finito con la faccenda del dichiarare dove vado?”
“Sì, certo, ma in questa zona non c’è nulla da fare e vorrei sapere cosa ci fa in giro da solo a quest’ora.”
“Oddio, mi sta dicendo che ho la faccia sospetta?”
“Le sto dicendo che voglio sapere dov’è diretto, se non le dispiace.”
“E va bene, agente, voglio essere sincero con lei, sto andando a mignotte.”
“Come ha detto? Si rende conto che potrei denunciarla, vero?”
“Agente, mi guardi, ho quarant’anni anni, sono single, sono chiuso in casa da non so più nemmeno quando e al sabato sera sono in giro da solo in bermuda, infradito e con Obi-Wan Kenobi sulla pancia. La prego, cerchi di essere comprensivo.”
“Ma non lo sa che non si può guidare in ciabatte?”
“Perfetto, vedo che si è fatto una bella bevuta di succo del discorso.”
“Come ha detto?”
“Niente, niente agente, parlavo sempre da solo.”
“Va bene, questa volta farò finta di non aver capito.”
“Sai che fatica.”
“Senta, vada via che è meglio e cerchi di non fare cazzate.”
“Sa che me lo diceva sempre anche la buonanima di mia nonna prima di andarsene?”
“È deceduta?”
“No, a 92 anni è scappata di casa e adesso vive a Los Angeles pippando cocaina.”
“Come?”
“Sì, è morta agente”
“Mi dispiace, ma d’altra parte sua nonna doveva sapere che la droga a quell’età è pericolosa. Adesso se ne vada, devo lavorare. Buonanotte.”
“Buonanotte agente”
Rimetto in moto e accendo la radio ma la qualità del segnale è la stessa di un cellulare sotto al Frejus. Provo il metodo Fonzie-Juke box di Arnold’s e rimedio solo una lunga crepa sul cruscotto.
Bene, perfetto, anche il carrozziere l’abbiamo opzionato.
Allungo la mano nel vano portaoggetti per recuperare un’altra sigaretta, e l’accendino scivola fuori dal pacchetto e cade sotto al sedile, nella quarta dimensione. Mi chino per raccoglierlo e senza rendermene conto parcheggio in una berlina a sua volta parcheggiata, in maniera più canonica, lungo la strada.
Scendo e appuro con sollievo che il danno non è poi esagerato: almeno metà del baule dell’auto in sosta è praticamente intatto.
Il mio cofano, invece, è sostanzialmente distrutto. Vabbè, tanto dovevo già far sistemare il cruscotto…
La tentazione di scappare è forte, ma la mia maledetta coscienza prende il sopravvento e mi costringe a lasciare sul vetro della parte lesa il bigliettino con la targa: RD957PU. La Twingo del parroco.
Dopo il sinistro, constato con gioia che il motore dell’auto è ancora in grado di funzionare ma, al tempo stesso, realizzo che l’eccitazione sessuale è precipitata come una mongolfiera colpita da un giavellotto.
A questo punto, cambio di programma, niente donne ma pausa naturistica: sono sicuro come l’uno nell’amichevole Barcellona – Nazionale Cantanti che dopo aver modellato per mesi la forma del mio culo sul divano, una bella passeggiata nel parco mi farà bene.
E, in effetti, la cura sembra funzionare, tutto mi trasmette pace: le ombre allungate degli alberi, le panchine con le coppiette che tornano a baciarsi, il laghetto, la luna piena nel cielo, l’uomo che si avvicina con il volto coperto da un sacchetto…
“Dammi i soldi, sfigato”
“E via un altro.”
“Non hai capito? Ho detto di darmi i soldi, sfigato!”
“Cioè, tu giri in un parco di notte con in testa un sacchetto di carta con due fori per gli occhi e hai anche il coraggio di chiamarmi sfigato?”
“Non fare il coglione e dammi quello che hai in tasca. E non è colpa mia se il passamontagna che ho ordinato su Amazon non è arrivato, sono mesi che non lavoro e non ho più niente da mangiare. Non posso mica star qui ad aspettare i corrieri!”
“Va bene, io i soldi te li do, ma guarda che così non sei credibile”
“E allora? Eh? Non vado bene neanche per te? Ho già una moglie che rompe i coglioni perché dice che non sono all’altezza, adesso devo bermi le critiche da uno che a cinquant’anni ha sulla maglia un frate con in mano un leccalecca luminoso?”
“È una spada Jedi, e di anni ne ho quaranta. Comunque scusa, non volevo offenderti”
“Ascolta, tieniti i soldi e levati dalle palle.”
“Ma no, dai, hai detto che hai bisogno…”
“No, non li voglio, mi sa che tu sei messo peggio di me…”
“Grazie, sei un amico”
“Figurati”
“Allora ci si vede in giro”
“Ok.”
“’Notte”
“’Notte”
Mi avvio verso l’uscita ma dopo aver mosso soltanto un passo, sento la ciabatta immergersi in un materiale gelatinoso che si dilata fino a risalire il bordo della suola, rivelando al piede il suo calore. Guardo con scarsa fiducia il terreno e noto con relativa sorpresa che ho pestato una merda colossale.
Dalle dimensioni, azzardo l’ipotesi che l’autore sia un bufalo delle praterie fuggito da un Wild West Show. Poi, poco distante, adocchio un alano di un metro e sessantacinque al garrese che decido di additare come colpevole.
“Signore! Il cane è suo?”
“No, sono io che sono suo.”
“Suo di chi?”
“Del cane.”
“Mi sta prendendo in giro?”
“Non so, lei cosa dice?”
“Senta, simpaticone, non crede che dovrebbe ripulire quella collina di letame?”
“Ma di cosa sta parlando?”
“Vuole dirmi che quel grappolo marrone è caduto dal cielo?”
“E perché no? D’altronde, dev’essere la notte delle merde cadenti, ne vedo almeno due in meno di dieci metri da me, non può essere un caso.”
“Oh, ma qui abbiamo un vero cabarettista che, presumo, non abbia quindi intenzione di ripulire gli scarti del suo cane.”
“Vede? Se vuole ci arriva anche da solo!”
Perdo la pazienza e simulo, con un movimento millimetrico della mano destra, un perentorio atto di ribellione, ma i sessantaquattro denti che sfodera il pony senza sella mi inducono a ridimensionare l’atteggiamento aggressivo a beneficio di una ritirata a testa china.
Raggiunto il parcheggio del parco rientro in auto e l’effetto sauna alimentata a sterco che si crea dopo un minuto di viaggio è insopportabile. Con le narici sigillate fra le dita guido fino alla luce rossa di un semaforo e mi fermo davanti alla linea bianca orizzontale.
Sbucato da non so dove, un lavavetri mi offre i suoi servigi.
Rifiuto come da prassi con indice dondolante e “vaffanculo” appena sussurrato.
Il furbo extracomunitario, dotato probabilmente di un udito straordinario, carpisce l’insulto uscito dal finestrino e, con grande maestria, finge di inciampare svuotando il secchio zeppo d’acqua, cacche d’uccello e moscerini sulla tappezzeria color crema della mia utilitaria modello SUV (Senza Un Vetro).
“Scusa signore, io inciampare.”
“Eh, inciampare, ma qui hai fatto un macello”
“Scusa signore io solo ciabatte, niente scarpe. E ciabatte suola rotta”
“Si, ho capito suola rotta, ma io avrò duecento euro di danni.”
“Io con duecento euro campa un mese, signore.”
“Ok, dai, tieni un euro”
“Dai cinque signore, io avere quattro figli e con virus non lavora da mesi.”
“Va bene, prenditi dieci euro e vattene.”
“Tanto grazie signore! E prossima volta manda fare in culo tua sorella.”
“Hai detto qualcosa?”
“No no, parlare da solo!”
Intascata l’ennesima umiliazione della serata, resta solo una cosa che possa consolarmi: l’alcol.
Dopo una breve ronda di perlustrazione, avvisto l’insegna di un bar.

BAR ABBA
Il nome non chiarisce se troverò un ambiente ispirato a un pregiudicato del primo secolo dopo Cristo o a un famoso gruppo dance del ventesimo secolo, ma decido comunque di entrare.
“Una birra, grazie”
“Chiara o scura?
“Faccia scura”
“La mia?”
“No, la birra”
“Ah. Eccola.”
“Grazie.”
Assaggio.
“È buona, me ne spilli altre quattro.”
Mentre sorseggio la mia quinta e ultima consolazione, al mio fianco si apposta un tizio che puzza come una carcassa e, non so perché, continua a starmi vicino, anzi, vicinissimo. Il primo pensiero che mi passa per la testa è che si tratti di un uomo solo in cerca di contatto umano dopo mesi di isolamento e così, nonostante la situazione sia decisamente inquietante, cerco di ignorarlo.
Un tonfo alle mie spalle genera in me un livello di spavento tale da farmi rovesciare almeno metà della Guinness sulla coscia ma il freddo della birra, arrivato all’altezza del polpaccio, diventa stranamente tiepido come se si stesse mescolando a un altro liquido, più caldo.
Prima di inabissarsi ai piedi degli sgabelli lungo il bancone, l’invadente sconosciuto, evidentemente sovraccarico d’alcol, mi ha pisciato su una gamba.
Non sapendo quale reazione adottare per vendicarmi dell’affronto, gli rovescio in faccia quello che resta del nettare irlandese ed esco, saltandolo, dal bar.
In compagnia del mio pantalone annacquato mi rimetto in strada in chiaro stato di ebbrezza, percorro non più di cento metri e vedo una figura sfuocata all’orizzonte che si avvicina al ciglio della strada. Dall’abbigliamento intuisco che non si tratta di una ragazza della notte, ma la vista sfuocata non mi permette di identificare il genere di essere umano che ormai ha messo due piedi all’interno della carreggiata.
Quando un bollo rosso catarifrangente si illumina colpito dai miei fari, tutto diventa terribilmente chiaro: paletta.
Fanculo.
“Buonasera, agente.”
“Buonas…ancora lei?”
“Si direbbe di sì…”
“Patente e libretto.”
“Temo siano gli stessi di prima.”
“Non faccia lo spiritoso.”
“Eccoli qui.”
“Cosa fa ancora in giro?”
“Gliel’ho detto, vivo solo e a casa mi annoio. Però, se la può consolare, non sono andato a prostitute.”
“Bene, bravo, ma adesso abbiamo un altro problema.”
“Che problema?”
“Lei puzza di birra.”
“Sì, però ho rinunciato alle prostitute.”
“Un reato non esclude l’altro.”
“Ma ho bevuto solo una media.”
“Scenda dalla macchina e soffi qui dentro.”
Tento una finta espirazione ma l’etilometro non se la beve.
“Molto bene, ecco il suo libretto.”
“E la patente?”
“Quella la tengo io. Parcheggi pure in quello spiazzo, quando tornerà sobrio potrà andare a casa.”
Abbattuto dall’ennesimo scherzo della sorte, mi accuccio su una panchina e cado in un sonno profondo.
Mi risveglio sei ore più tardi con il sole alto, una merda di piccione sulla spalla e nove euro in moneta per terra, frutto della pietà di alcuni passanti mattutini che devono avermi scambiato per un barbone.
Riprendo l’utilitaria e raggiungo il garage di casa.
Apro il portone mentre una leggera depressione mi prende per mano e mi accompagna passo-passo per le scale, fino all’ultimo gradino della rampa.
Raggiunto il culmine della scalinata, la suola, ancora viscida dai resti di escrementi canini, mi tradisce proiettandomi a valle come una balla di fieno lanciata dall’Himalaya e mi ritrovo ancora davanti al portone del condominio.
Sdraiato a terra a faccia in giù, le immagini della notte precedente mi scorrono davanti come il classico film della tua vita che si dice si palesi nell’attimo prima in cui stai per morire: sigaretta dal finestrino che brucia il sedile, primo posto di blocco della Polizia, tentata rapina al parco, grande stronzo padrone di grande cane che fa grandi merde, extracomunitario dal super udito che mi devasta gli interni della macchina, alcolizzato che mi svuota la vescica su una gamba, secondo blocco di Polizia con “donazione” non volontaria della patente e, infine, pelle maculata di lividi a causa di una discesa libera lungo le scale di casa.
Ripercorro le rampe prestando più attenzione, penso a quant’era rilassante e privo di rischi il lockdown della “Fase 1” e raggiungo finalmente il mio appartamento dal quale, a conti fatti, non sarei mai dovuto uscire.

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