Nel nome del figlio – Episodio I

di Irma Nisi

 

Si era lasciato sedere sui gradini davanti al portone d’ingresso, le gambe avevano ceduto, il biglietto nascosto nella mano a bruciargli la pelle.
«Ma com’era potuto accadere? Da dove saltava fuori quella vecchia storia?», si domandò ansimando. Sentiva le tempie pulsare, il palpito del cuore che non accennava a calmarsi e il rossore del viso che diventava sempre più intenso. Doveva alzarsi, entrare in casa e chiudersi in bagno. Nessuno doveva accorgersi della sua presenza, non prima che si fosse calmato e avesse riacquistato la padronanza di sé.
Il profumo di glicine che proveniva dal pergolato lo confondeva. Inveì contro sua moglie che aveva voluto piantare a tutti i costi il rampicante. Non gli era mai piaciuto tutto quel viola, portava male, anche se non lo avrebbe mai ammesso con nessuno. Piano piano però l’odore di talco dolce fu sostituito da quello intenso delle polpette e a Franchino parve di riprendere forza e coraggio in un attimo. Si tolse le scarpe, le prese in mano e posò i piedi sul basamento di pietra nera: «È pure freddo», imprecò fra i denti, «quel dannato glicine non fa passare neanche un raggio di sole». Si alzò, camminando sulle punte salì i gradini e si intrufolò guardingo in casa. Nessuno all’ingresso e nessuno nel lungo corridoio. In un baleno, raggiunta la porta del bagno, se la chiuse alle spalle e respirando finalmente a pieni polmoni si abbandonò centrando di peso il sedile del water.
Rovistò con la mano nella scarpa destra e dalla punta estrasse un foglio di carta ingiallito e ripiegato quattro volte. Puzzava di sterco di cavallo e in controluce si intravedeva una patina marroncina in uno degli angoli: «Sti maiali, sti cafoni, manco le mani si sono pulite». Rilesse attentamente le parole, sillabando nel tentativo di dare alla frase la stessa intenzione del suo scrittore:
AИCORA. ИO. AI. PACHATO ИA LIRA DEL TUO, TEBBITO LATRIИA?
SOLO. CUSTI. GESTI. SAI. FARE. LATROИI. MUCITO.
COSCIEИZA. SPORCHA.

  1. PAURA?

Certo che era scritto proprio strano, pensò guardando quelle enne girate e tutti quei puntini fra una parola e l’altra, va bene essere ignoranti, ma questo è troppo.
Il rumore della maniglia abbassata più volte con foga lo riscosse dai suoi pensieri.
«E che è? Un momento che apro!» urlò, e infilandosi il biglietto in tasca, tirò lo sciacquone, spalancò la porta e così, giusto per sfogarsi, diede uno scappellotto a quel somaro di suo figlio che a tredici anni non aveva ancora imparato a bussare.
«Ahi, papà! Non lo sapevo che stavi tu in bagno!»
«E adesso lo sai», gli rispose, e si andò a sedere a tavola.
Quando era di quell’umore, sua moglie lo sapeva, bisognava diventare invisibili, muti, insomma morti che altrimenti si poteva scatenare l’inferno. Nessuno avrebbe fatto domande, nessuno lo avrebbe disturbato, avrebbe potuto mangiare in pace e riflettere: era fondamentale riflettere.
Luciana gli servì il piatto di pasta col sugo guardandolo di sbieco e quando lo vide addentare i maccheroni con la consueta voracità si sentì più serena.
«Finché l’appetito è conservato, non c’è niente di irreparabile», si consolò, e prese a mangiare tranquilla anche lei.
«Te lo faccio il caffè?» gli chiese dopo che il marito aveva divorato le ultime fave fresche.
Franchino la guardò come si guarda qualcosa di estraneo, una carta in mezzo alla strada, un vecchio su una panchina della piazza, le femmine davanti alla chiesa.
«No, non lo voglio», le disse, «esco». E tracannando dal bicchiere l’ultimo sorso di vino si alzò, trattenne il fiato, chiuse il bottone dei pantaloni e si rifugiò in bagno ancora una volta.
A tavola, fra polpette, fave e pane aveva avuto ben poco tempo per pensare, ma qualcosa gli era venuta in mente. E adesso aveva paura. Doveva consultarsi con qualcuno, una persona che ne sapeva più di lui, che capiva le cose, che aveva una visione più ampia. Alzò la testa e si accorse che la macchia di umido all’angolo della stanza era tornata ad ingiallire le pareti.
«Quella cretina! Gliel’ho detto mille volte che deve tenere le finestre aperte la mattina, che l’aria deve girare». Ecco, ci mancava pure questa. Solo un anno fa aveva ritinteggiato tutta la casa e adesso di nuovo quella schifezza gialla e pustolosa sulla sua testa, come l’aureola di un santo di serie B.
La parola santo gli illuminò la mente: chi meglio del parroco lo avrebbe potuto aiutare a fare chiarezza. A parte Gino che era comunista e non metteva piede in chiesa da almeno vent’anni, né per i matrimoni, né per i battesimi, né tantomeno per i funerali, da don Savino prima o poi ci passavano tutti. Lui qualcosa doveva sapere. Mica era necessario che gli dicesse proprio tutto, ma un’indicazione forse gliela poteva dare, per accomodare le cose e evitare guai, che di quelli nessuno aveva bisogno.
Si guardò allo specchio, si sistemò i capelli che – ahimè – da qualche mese avevano cominciato a diradarsi sulle tempie e tirò fuori da sotto la maglietta la catenina con la croce, che faceva un po’ di scena. Poi tastò la tasca posteriore dei pantaloni e ne estrasse il portafogli. Cominciò a contare e arrivato a tre si convinse che poteva bastare, non bisognava esagerare con le donazioni che in un attimo diventavano una pericolosa abitudine.
Ripose nella tasca il portafogli e si lavò le mani. «La fede!» pensò. Non la portava più da almeno cinque anni, da quando era ingrassato e l’anello gli stringeva l’anulare. Cercò di ricordare dove poteva averla messa, avrebbe potuto chiedere a Luciana, ma non sarebbe stato prudente. Guardò le mani callose e scurite dal sole. «Ne faremo a meno, della fede», disse all’aureola di muffa sopra la sua testa.
Luciana sentì la porta di casa sbattere e alzando gli occhi al cielo disse ad Egisto:
«Vai a fare i compiti, che quando tuo padre torna sicuro ti porta a raccogliere l’olio».
Egisto, l’aveva voluto chiamare quel figlio suo, era stato senza cuore. Lei aveva pensato a qualcosa di più moderno, magari Giorgio, ma alla fine si sarebbe accontentata anche di Antonio, tanto poi tutti l’avrebbero chiamato Toni, all’americana, invece niente.
Egisto, perché poi? Non era neanche il nome di suo suocero. Mai gliel’avrebbe perdonata. Riassettando la cucina, il profumo del glicine in fiore la raggiunse e la riappacificò con se stessa: almeno su quel punto l’aveva avuta vinta, il suo porticato era il più bello del paese e pazienza per suo figlio e quel nome astruso che il padre gli aveva affibbiato.

Mentre camminava veloce verso la chiesa madre, Franchino si rese conto che erano appena le tre di pomeriggio. La preoccupazione l’aveva confuso e ora si domandava se il parroco l’avrebbe accolto alla controra. Ma arrivato davanti al piazzale della chiesa, lo trovò gremito di bambini e bambine che aspettavano di entrare.
«È vero», pensò, «è periodo di comunioni questo». Quando il portone della chiesa si aprì, si confuse fra i bambini che entravano per fare la prima confessione e si appoggiò ben nascosto ad una delle colonne vicine al confessionale.
Le suore e le catechiste avevano il loro bel da fare per far tacere quella ciurma ansiosa di confidare i peccaminosi segreti accumulati in circa dieci anni di vita, ma quando Don Savino apparve e cominciò a dispensare istruzioni dall’altare il silenzio si fece assoluto:
«Bambini, il momento è giunto. Le vostre catechiste vi hanno preparato a questo per mesi, anni direi. Ma sappiate che a nulla varrà il mio perdono se le vostre parole non nasceranno dal cuore. Orsù aprite i vostri animi e lasciate che il male che ha tormentato le vostre menti e imputridito i vostri corpi sia scacciato per sempre. Nel nome del Signore. Ebbene, cominciamo.»
Franchino si sentì rincuorato, aveva la speranza che il parroco, col quale tutti si confidavano, qualcosa potesse sapere: una mezza frase, un’intenzione ancora vaga o semplicemente un rimorso giunti alle sue orecchie, potevano essere per Franchino la strada verso il chiarimento. Così si decise ad attendere fino all’ultima confessione: tanto valeva aspettare e non farsi sfuggire nemmeno una possibilità.
Trascorsa un’ora, finalmente l’ultima bambina si alzò dall’inginocchiatoio e Franchino, strofinando le mani sudaticce sui pantaloni di tela, si precipitò al confessionale che il parroco stava già abbandonando.
«Buon pomeriggio, Don Savino, aspettate, Franchino sono, quello dell’olio vecchio. Vi devo parlare».
«Franchino, non ho tempo adesso, tornate domani prima della messa dei vespri».
«Don Savino, per favore, non posso aspettare, è una questione importante, vitale direi».
«Ma buon uomo, come facciamo? La vedi la chiesa piena di giovani anime pure?» lo blandì il parroco.
«Due minuti, solo due minuti, non chiedo di più».
Il sacerdote si lisciò la tonaca e si rimise i paramenti della confessione. «Facciamo veloce, dimmi che è successo», gli disse saltando la formula di rito. Franchino, in preda all’ansia, fissò lo sguardo sul prete cercando di catturarne gli occhi in fondo alle lenti e sbottò: «Padre, mi hanno minacciato, dicono che non ho pagato un debito, ma non è vero. Padre ho paura, io ho saldato tutti i conti, come mi hanno chiesto, oramai tanti anni fa, pure mio figlio ho chiamato Egisto!».
Spaventato come il maiale davanti al norcino, Don Savino si alzò di scatto dal confessionale e alzando la voce gli intimò:
«Io di queste cose non ne so niente e niente ne voglio sapere. Prima metti a posto i fatti e poi ti pulisci la coscienza».
E dopo aver dispensato grugnendo l’ultimo consiglio, si lanciò verso la sagrestia, lasciando Franchino inebetito e ancora più confuso.
E adesso, che doveva fare, si chiese sconsolato. Il parroco per parlare non aveva parlato, ma la sua reazione era sta inequivocabile: paura! Il solo sentir la parola debito associata al nome di Egisto lo aveva indotto a quel comportamento. D’altronde i sui peccatucci da nascondere il prete ce li aveva e a tirarlo fuori dai guai era pur sempre la stessa persona, la stessa il cui nome lo aveva riempito di terrore. Uno meno furbo di lui, pensò Franchino, non avrebbe saputo cogliere quello che, tacendo, Don Savino gli aveva voluto consigliare: risolvi la questione o saranno guai.
«Già, guai! Ma che devo fare? Che vogliono ancora da me?».
Percorrendo a ritroso la strada verso casa, si sentì più vecchio e pesante. Ma adesso di tempo non ne aveva più, erano già le cinque e doveva fare il giro del paese a raccogliere l’olio, che i soldi a casa non bastavano mai, con quella moglie gran signora che si era sposato. Gli erano sempre piaciute le belle donne, questo era il guaio. Luciana, con quella bocca che aveva da ragazza, con quelle cosce, con quel seno che lui non sapeva neanche dove guardare, gli aveva fatto fare tutto ciò che voleva, nei guai si era messo pur di conquistarla. Si fosse preso quella racchia di Pinuccia, di sicuro ne avrebbe evitati di problemi.
Con questi pensieri in testa aprì la saracinesca del garage, salì sull’Ape e partì a fare il giro del paese.
«Egisto!» urlò di fronte al portone di casa.
In meno di un attimo il ragazzo, magro, con le gambe lunghe e un broncio costante in faccia, si precipitò fuori e salì al volo sull’Ape ricolma di vaschette di ogni foggia e dimensione, imbuti dalle bocche larghe, medie e piccole, scolapasta e quant’altro il mondo della plastica potesse offrire in cambio dell’olio usato in cucina. Un baratto che faceva felici le signore: con quella roba nuova si sentivano catapultate nella modernità. Lui l’olio se lo rivendeva e ci faceva un po’ di quattrini, che con la campagna non si poteva mai sapere come finiva la stagione.
Alle sette, finito il giro, riaccompagnò a casa il ragazzo e parcheggiò l’Ape chiudendosi in garage. Dalla tasca estrasse nuovamente il biglietto cercando nei caratteri che gli ballavano davanti agli occhi un suggerimento. Come era possibile che qualcuno avesse rivangato quella vecchia storia, erano passati così tanti anni, quindici per l’esattezza. Se lo ricordava bene come fosse ieri. Era stato tutto per far colpo su Luciana.
Quella sera erano andati a mangiare un gelato, era estate e faceva caldo. Il sudore gli imperlava la fronte, ma solo in parte a causa della temperatura. Luciana gli camminava a fianco in un vestitino azzurro aderente e leccava il gelato e lo guardava con gli occhi sorridenti. Una goccia di cioccolato le scivolò dalla bocca e si andò a posare come una spilla sul seno sinistro.
«Mia madre mi ammazza se si accorge che mi sono sporcata il vestito buono», si mise a gridare lei, piagnucolando.
Così erano corsi fino alla fontanella più vicina, lei aveva abbassato la spallina e aveva strofinato la macchia con tutte le sue forza. Sotto il movimento frenetico della mano il seno le si alzava ed abbassava, seguendo il ritmo del respiro: Franchino era ipnotizzato alla vista di tutto quel bendidio. Fu quello il momento in cui prese la decisione più importante della sua vita. E mentre Luciana si affannava sotto il getto, lui le si inginocchiò davanti e con in mano un fiorellino raccolto al volo dal terreno le chiese:
«Luciana, non posso vivere senza di te, Luciana… vuoi sposarmi?»
«Ma vedi a che sta pensare questo adesso», gli rispose la ragazza, «che manco so se sopravvivo quando torno a casa».
Ma dovette accorgersi ben presto della delusione sul viso di Franchino perché in tutta fretta aggiunse: «Ti sposo, ti sposo, però mi devi portare in viaggio di nozze a Parigi, se no scelgo il figlio del farmacista, che lui la luna di miele me la fa fare di sicuro da principessa».

«Ogni tanto una gioia», esclamò Egisto quando il padre gli chiuse la saracinesca in faccia lasciandolo fuori dal garage. Sempre a dare ordini, quel padre, ingiustamente, che di lui proprio non si poteva lamentare. Tutto quello che chiedeva, prontamente lo faceva senza fiatare. Pure il giro dell’olio. E quanto detestava farlo. Anche perché a scuola avevano cominciato a chiamarlo Friol e a dire che puzzava di pettole e polpette. Certo scegliere fra Egisto e Friol era dura, pure in questo suo padre si era proprio impegnato. Ma ciò che non gli andava proprio a genio era la storia della puzza. Lui non puzzava, sua madre ci teneva alla pulizia e in bagno loro usavano il sapone liquido, non la tavoletta.
Quando lo aveva raccontato a sua madre, lei era andata in escandescenze: «Ma come, a te? Friol? Ah ma tuo padre mi sente, sì che mi sente».
Invece Franchino non aveva ascoltato neanche Luciana, li aveva guardati con quell’espressione da killer dei film americani e aveva urlato tanto forte che le vene del collo era diventate tutte gonfie:
«A casa mia comando io, lo volete il sapone liquido? Lo volete il pergolato di glicine? Il vestito nuovo per la festa del Santo Patrono?».
Nessuno di loro aveva avuto il coraggio di replicare, ma, sparito il padre alla vista, Egisto non aveva potuto trattenersi dal sussurrare un vespasiano invito nei confronti del genitore ingiusto e violento.
Rientrato in casa, Luciana si assicurò che fosse andato tutto per il meglio. Si attendeva come sempre un contenuto sì di risposta, ma Egisto la sorprese dicendo: «Papà sta strano, più strano di oggi a pranzo. Non voleva prendere l’olio della moglie del fruttivendolo perché diceva che lo allungava con l’acqua. Per fortuna che quella è un po’ scema e non si offende, e la comare Tiziana le ha dato lei un imbuto e l’ha messa subito buona».
«E mo’ dove sta?» chiese Luciana con lieve preoccupazione.
«S’è rinchiuso in garage, ha abbassato la saracinesca e mi ha detto di lasciarlo in pace. Troppo strano sta, fidati mammà, che qualcosa gli deve essere capitato».

Franchino si scosse dai ricordi e, reggendo con le mani una tenaglia che apriva e chiudeva per scaricare il nervoso, cominciò a pensare a cosa fare.
Una cosa era certa, il messaggio avrebbe avuto un seguito. Chiunque glielo avesse mandato, e lui un’idea purtroppo se l’era fatta, avrebbe trovato il modo di avanzare le sue pretese. Ora aveva due possibilità, aspettare un nuovo messaggio oppure confermare i sospetti una volta per tutte. E siccome fermo non sapeva stare, cominciò a passare in rassegna tutte le facce del paese, alla ricerca di qualcuno che potesse essergli d’aiuto.
Era arrivato alla parte alta, dove c’erano le villette più carine, quando sentì la voce di Luciana dietro la saracinesca: «Franchì, è pronto, vieni, Franchì!».
«Vengo, vengo» le rispose infastidito. Proprio in quel momento gli era venuta in mente una faccia che forse era quella giusta, ma come al solito sua moglie si era messa in mezzo e adesso non se la ricordava più com’era fatta, quella faccia.
Dal canto suo Luciana, mentre se ne tornava in cucina, pensava che suo marito alla fine era stato un bluff, come dicevano nei fotoromanzi, e che ci aveva perso a non sposare il figlio del farmacista.
Certo, la sicurezza matematica di combinare quel matrimonio non ce l’aveva, mentre Franchino era lì pronto, però forse avrebbe dovuto rischiare di più. Invece s’era fidata della promessa del viaggio a Parigi e lui invece manco ce l’aveva portata, a Parigi, e si era dovuta accontentare di Firenze.
«Per carità bellissima città, ma il fascino dell’esotico…» aveva confidato al suo confessore, un domenicano panciuto che tre volte al mese apriva le porte del suo convento per le anime in pena.
«Padre Anselmo, poi quando mi ha raccontato tutta la storia, io lo volevo ammazzare quel pazzo lì, quel cretino. A debito si era procurato i soldi per il viaggio di nozze quel pezzente!». Per tutto l’anno successivo al matrimonio aveva dovuto risparmiare sulla spesa e mentre tutte compravano il pesce al venerdì, lei era l’unica che preparava le fave con il pecorino.
Hai voglia a dire che aveva letto in un giornale serio, una rivista di scienziati, mica Grand Hotel, che insieme al pesce si mangiavano anche i metalli pesanti e non faceva bene.
Nessuno le credeva e pure sua sorella la compativa, immaginandola persa nella più nera povertà.
E chissà adesso in che guaio si era cacciato quello scellerato. «Speriamo bene», sospirò al pensiero dell’acconto già lasciato al sarto per il vestino nuovo.
Durante la cena il silenzio regnava assoluto, la preoccupazione che si era impadronita di Franchino aveva finito per diffondersi anche a Luciana ed Egisto: seduti a capo chino si scambiavano sguardi fugaci colmi di apprensione. D’altra parte mai, ma proprio mai avevano visto quell’uomo sempre vorace cincischiare con la forchetta nel piatto e lasciare lì tutto il sughetto senza fare scarpetta.
«E finalmente!» sbottò Franchino che nell’alzarsi precipitosamente aveva sbattuto il pugno sulla tavola imbandita e fatto tintinnare bicchieri e posate.
«E statti attento» le uscì dal cuore a Luciana, conscia della fatica necessaria a cancellare le macchie di primitivo dalla tovaglia.
Ma Franchino non la ascoltava proprio. Si era andato a sedere sulla poltrona davanti alla finestra e mentre sistemava il trinciato nel fornello della pipa diceva a se stesso: «Questo non è orario di cristiani, ma domani lo vado a trovare senza perdere tempo. Sono sicuro che lui mi darà l’aiuto che ci vuole» e rivolto a sua moglie: «Lucià, per domani prepara una bella torta con tanta frutta fresca, che quando torno da campagna mi serve».
Così dicendo si appisolò sulla poltrona con la pipa in bocca e negli occhi il volto dell’uomo che secondo i suoi calcoli lo avrebbe salvato.
E lì lo trovò ancora Luciana quando la mattina si alzò per preparare la colazione; sulle prime credette che suo marito, dopo essere impazzito la sera prima, doveva pure essere morto, perché qualcosa nel cervello e nel corpo di quell’omone di sicuro aveva smesso di funzionare.
«Franchino, Franchì», lo scosse tirandolo per il collo della maglietta, «vedi che è tardi, devi andare a lavorare».
L’uomo sbarrò gli occhi e al suo solito modo urlò: «la torta, mi raccomando». Si alzò dopo essersi stirato gambe e braccia e se ne andò in bagno, lasciando Luciana ancora più attonita che se lo avesse trovato davvero morto.
Quando Egisto fu pronto per andare a scuola sua madre gli disse: «Figlio mio, prepariamoci al peggio, tuo padre non sta per niente bene. Straparla e ha la fissa delle torte. Io stamattina vado dal dottore, vediamo che mi dice, che con le malattie mentali non c’è da scherzare, che è un momento che quello fa una fesseria».
Con il volto affogato nella tazza del latte, Egisto ascoltava sua madre. Se Luciana lo avesse osservato con attenzione, avrebbe notato un luccichio negli occhi del ragazzo. Ma nessuna madre avrebbe pensato che un figlio, membra delle tue stesse membra, potesse essere in grado di provar godimento all’idea di ritrovarsi improvvisamente senza padre.
Dopo aver fatto il giro delle botteghe per comprare l’occorrente per la torta, farina, uova, fragole, banane, mele, ma non limoni perché in casa aveva l’albero, Luciana si fece coraggio e si presentò davanti alla porta del dottore.
Da quando Don Attilio era morto, non ci andava più a cuor leggero. Il vecchio dottore era un uomo d’altri tempi che sapeva come mettere le signore a proprio agio, mentre questo dottorino fresco di laurea aveva un fare da saputello che un po’ intimidiva e un po’ innervosiva. Però lui c’era e di lui ci si doveva accontentare. Così entrò e si accomodò nella sala d’attesa dove già era appollaiato un vecchio col bastone.
Una giovane mamma con una bambina di qualche mese uscì dalla stanza del dottore: «Buongiorno», le disse Luciana, «ma che bella questa bambina. Me l’avevano detto che avevate partorito, congratulazioni».
«Grazie Luciana, ma che è sto voi? Sempre Gabriela sono».
«Hai ragione, è che oggi sono un po’ preoccupata. Quando c’è di mezzo la salute, non si sta mai tranquilli».
«Come ti capisco. Ora vado che questa fra un po’ deve mangiare e quando ha fame non sente ragioni. Vienimi a trovare ogni tanto che ci prendiamo un caffè».
Rimasta sola, nell’attesa che arrivasse il suo turno, Luciana cominciò a fissare le buste con gli acquisti. Aveva speso un po’ troppo forse, ma la frutta fresca costa e Franchino lo sapeva bene. Si era scimunito, questo era un segno inequivocabile. Ma quando mai gli era venuta in testa un’idea così, lui che quando lasciava l’elemosina in chiesa chiedeva il resto. Che lei solo sapeva cosa aveva dovuto fare per avere quel glicine!
Al ricordo un sorrisetto le illuminò il volto: «Magari mi posso impegnare un’altra volta», si disse con quella luce birichina nello sguardo. E si alzò per entrare al posto del vecchio appena uscito.
«Buongiorno dottore».
«Buongiorno signora, si accomodi. Si chiama?»
«Spagnulo Franchino»
Il dottore la guardò da sopra gli occhiali: «Signora, lei, come si chiama».
Luciana, dopo un attimo di confusione, si riprese: «Spagnulo Luciana, ma non è per me che sono qui, è per mio marito».
«E perché lui non è qui?» la incalzò il dottore.
La donna sospirò, si fece coraggio e sputò fuori tutti i pensieri che l’avvelenavano: «Dottore, mi creda, mio marito sta uscendo pazzo. Primo, ieri non ha fatto la scarpetta nel piatto, secondo mi ha ordinato di fare una torta con la frutta fresca. Lo sa lei quanto costa la frutta? Mio marito, non dico che è tirchio, ma di certo è parsimonioso. Questa non è cosa da lui.
E poi ieri si è addormentato sulla poltrona e non si è più svegliato, che lui in genere alle due di notte si sveglia, viene a letto e ha certe pretese, che veramente per fortuna che è veloce…».

«Signò!» la interruppe bruscamente il dottore, «ma state parlando seriamente?»

Luciana lo fissava come si fissa un qualcosa di ignoto e potenzialmente pericoloso.
«Mi sa che a non stare bene qui è lei, non un povero uomo stanco, che chiede alla moglie di fare una torta. Vada, vada, altrimenti la mando a fare una visita dallo psicologo».
La povera Luciana prese al volo le sporte della spesa e si fiondò fuori dall’ambulatorio sussurrando intimorita: «Ma che spicologo, dottò, quale spicologo!».

6 thoughts on “Nel nome del figlio – Episodio I”

  1. La mia Amica dalla penna magica… ha creato davvero una storia divertente e così ricca di atmosfere e particolari da farmi tornare indietro negli anni della infanzia al paesello!
    Mitica Irma… ora non vediamo l’ora di capire chi sta minacciando Franchino.
    A quando il prossimo episodio?

  2. Irma Nisi non tradisce le aspettative. La sua capacità di ricostruire certe atmosfere di paese, l’incalzare del racconto la rendono un Andrea Vitali del sud !

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