Il giorno del silenzio

di Massimiliano Renaud

Marco aprì gli occhi alle 6.30, dieci minuti prima della sveglia.
Si alzò con un pigro colpo di reni e, senza nemmeno far cigolare la rete del letto, raggiunse la porta del bagno reggendosi con una mano a un’anta dell’armadio chiuso.
Aprì la porta, che stranamente non emise il consueto trascinato cigolio, raggiunse il lavabo e azionò il miscelatore: l’acqua cadde muta sulla ceramica.
Marco si preoccupò e accennò un’offesa all’Altissimo, iniziò a toccare tutti gli oggetti che aveva intorno ma nessuno di questi emetteva alcun suono e anche quando si mise ad urlare, non riuscì ad infrangere la barriera del silenzio.
Si tolse il pigiama e si lavò a pezzi, si torturò le orecchie con le dita tentando in qualche modo di riaprirle ma non ottenne risultati. Prese il rasoio, lo accese e non sentendo l’usuale ronzio metallico iniziò a piangere, senza poter udire i suoi singhiozzi.
Colpì con un pugno il mobile a colonna vicino al lavabo e dal dolore che provò, considerò che se avesse potuto sentire lo scricchiolio delle dita contro il legno laccato ne sarebbe rimasto sicuramente impressionato.
Dopo essersi fatto di nuovo beffe del secondo Comandamento, pensò di chiamare il medico ma nella sua condizione di non udente non avrebbe potuto ascoltare diagnosi ed eventuale cura.
Allora pensò di andare al pronto soccorso ma aveva troppe questioni urgenti da sbrigare in ufficio, non poteva assolutamente permettersi di perdere proprio quel giorno di lavoro.
Così accese la radio, sperando che le frequenze modulate potessero fare un miracolo che non fecero, si vestì in fretta, uscì di casa e si incamminò verso il lavoro.

Lungo il tragitto si guardò intorno di continuo, come chi vede una città per la prima volta, cercando di cogliere uno dei mille rumori di civiltà che ogni mattina lo accompagnavano al lavoro, ma non sentì nulla.
Le mamme chiamavano i loro figli con le braccia protese in avanti, il giornalaio parlava con un donna sventolando un quotidiano, due ragazzi alla fermata discutevano di qualcosa che sembrava essere molto importante e il meccanico, chino su se stesso, apriva la serranda salutando il fornaio. Decine di mani che si alzavano, di teste che annuivano, di corpi e volti che esprimevano in silenzio emozioni e sentimenti, come una compagnia di mimi impegnata in un enorme spettacolo di strada.
“Mio Dio, e adesso cosa faccio? E se non riuscissi a sentire mai più?”

Raggiunse l’ufficio e rispose con un cenno e un ciao ai saluti che leggeva sulle labbra dei colleghi: nessuno si accorse di nulla, erano tutti gesti di routine.
Per un attimo si sentì sollevato, anche se sapeva che non si sarebbe potuto nascondere per tutto il giorno.
Cinque minuti più tardi, infatti, il ragionier Piletti irruppe in ufficio con il volto talmente rosso e irritato da far capire, senza udirlo, il tono delle sue parole.
Marco provò a spiegare, urlando come se fosse a decine di metri dal suo interlocutore, che non poteva sentirlo.
“Boselli, ma cosa cazzo stai dicendo? Dai, non fare il coglione!” rispose il ragionier Piletti con il solito linguaggio forbito.
Marco interpretò il labiale, sorrise e allargò le braccia.
“Cosa posso dirti? Non ci sento!”
Ancora un labiale chiarissimo del collega.
“Mi prendi per il culo? E poi perché stai urlando?”
Marco rispose tentando di tenere bassi i decibel.
“Scusami, Piletti, ma è da questa mattina che non sento assolutamente nulla, nemmeno la mia voce!”
Il collega, preso atto del problema, rispose cercando di mimare un concetto unendo le punte di tutte le dita di entrambe le mani e oscillandole in verticale davanti allo sterno.
“E adesso? Come cazzo fai?”
Un altro labiale facile, facile.
“Dopo il lavoro andrò in ospedale, tu avvisa il resto dell’ufficio di non chiamare il mio interno: se rispondessi dicendo di essere sordo penserebbero che li sto prendendo per il culo, se non rispondessi penserebbero che sono uno stronzo. Mi raccomando, dillo a tutti.”
Piletti alzò il pollice, salutò il sordo e iniziò il giro degli uffici.

Marco si mise al lavoro e trascorse un paio d’ore abbondanti con il telefono muto, i colleghi che non gli venivano a gettare fogli sulla scrivania, il fax che sputava fogli senza quel fastidioso sibilo e il condizionatore che rinfrescava l’aria senza emettere quell’irritante brusio.
Immerso in tutta quella pace, riuscì a portare termine in fretta il lavoro che gli aveva impedito di cercarsi un otorino ed ebbe anche il tempo di farsi erogare un orrendo caffè dal distributore automatico.
Pochi minuti prima della pausa pranzo, l’idillio ovattato in cui era immerso venne interrotto da una mail del suo capo contrassegnata come “urgente”, il quale lo invitava a presentarsi nel suo ufficio entro tre minuti al massimo.
Senza nemmeno rispondere alla missiva virtuale, Marco si presentò nell’ufficio del superiore con tutte le pratiche completate e impacchettate in un raccoglitore rosso nuovo di zecca.
“Buongiorno Boselli, venga, venga, si accomodi” disse il capo alzando appena la testa.
Marco entrò e si sedette davanti al superiore.
“Allora, mi dica, ha terminato quelle pratiche?”
Marco, imbarazzato, rispose: “non la sento, direttore.”
“Ma cosa sta dicendo? Mi prende in giro? Questo significa che non ha portato a termine quelle pratiche, vero? Erano urgentissime! Gliel’avevo detto!”
Intuendo il contenuto dello sfogo, terminato con pugno silenzioso sul tavolo, Marco aprì il raccoglitore sulla scrivania del dottor Muzzi e si mise a sfogliarlo.
“Ho fatto tutto” disse, cercando di non urlare.
“Io non la capisco, Boselli, prima tenta di svicolare alle mie domande fingendo di non sentirmi e poi mi fa vedere il lavoro finito. Mi spiega cosa sta succedendo?”
Marco sospirò.
“Dottore, non sento nulla di quello che mi dice. È da stamattina che sono…sordo.”
“Cosa vuol dire che è sordo?”
“Non capisco niente, mi dispiace.”
Il responsabile amministrativo stava per rispondere quando Marco lo vide alzare lo sguardo oltre la sua testa e muovere le labbra all’indirizzo di qualcuno.
Marco ruotò la testa e si trovò alle spalle la segretaria del capo, una specie di semidea portatrice sana di una quarta coppa C.
Dopo averle fatto una veloce radiografia al décolleté, Marco tornò a guardare il suo superiore e trovò una mano che ondeggiava indicando la porta, e un inconfutabile labiale: “Boselli, vada, adesso non ho tempo per queste stronzate.”
Marco non se lo fece ripetere due volte, tanto non lo avrebbe sentito nemmeno la seconda, e uscì dalla porta esaminando di nuovo le morbide prominenze della segretaria.

Cazzo, pensò ancora turbato dalla visione della venere in tacchi a spillo, me la sono cavata in meno di cinque minuti quando, di norma, un incontro con il dottor Muzzi non si risolve in meno di mezz’ora tra racconti di pesci giganti presi al lago con gli amici, scadenze da rispettare, ricordi di viaggi in paesi esotici, tasse da pagare, collezioni di orologi dai prezzi astronomici e revisori contabili sempre pronti a rompere i coglioni.
Marco sussurrò senza sentirsi: “Oh, sai che questo silenzio…”

All’ora della pausa pranzo, Marco decise di non fermarsi alla mensa per evitare situazioni imbarazzanti con i colleghi e camminò fino a una delle panchine del parco lì vicino. Aveva fame, ma anche troppa paura di affrontare le domande del loquace barista del chiosco, sarebbe stata una situazione insostenibile.
Decise di saltare il pranzo.
Il parco era privo di parole e suoni e i passanti sembravano tutti assorti in ascetica riflessione, senza lamentarsi del lavoro, della politica, delle stronzate dei figli e dei risultati del campionato di calcio. Mancava il cinguettio degli uccelli, è vero, ma mancavano anche il gorgoglio dei motori in coda al semaforo, il sibilo che annunciava il roboante passaggio del Milano Centrale – Roma Termini, le urla degli adolescenti invasati con la musica trap, sfegatati seguaci di un tizio che si fa chiamare Palla e Basta o qualcosa del genere.
Marco guardò l’ora, si erano quasi fatte le due, e sempre più convinto del fatto che il tempo vola solo quando stai bene, abbandonò quel piccolo paradiso personale e tornò in ufficio.

Il pomeriggio scivolò senza intoppi come il mattino, anzi, forse andò addirittura meglio.
Poco prima della pausa caffè, Simona Belli e Rossana Giuntini puntarono i loro quarantotto centimetri di tacco complessivi davanti all’ufficio di Marco.
“Ciao, Marco!” Disse il labiale contemporaneo delle colleghe.
“Ciao, ragazze!” Urlò lui, tanto da costringerle a uno scenografico gesto di allontanamento.
“Ci hanno detto quello che ti è successo! Ma com’è possibile?”
“Non vi sento! È da questa mattina che non sento nulla!”
“Sì, ce lo hanno detto! Ma adesso come stai?”
“Mi dispiace, ragazze, ma non capisco quello che dite!”
“Povero, quindi non ti stai riprendendo?”
Un leggero desiderio di blasfemia lo sfiorò ancora una volta, ma si trattenne.
“Eh no, proprio non capisco, Simo, mi dispiace.”
“Va bene, allora facciamo così, appena ti sarai ripreso andremo a cena tutti insieme, ti va?”
Marco, naturalmente, non capì nulla della frase ma riuscì stranamente a decriptare il labiale delle ultime sei parole pronunciate da Rossana: a cena tutti insieme ti va.
“Certo che mi va! Allora mi faccio sentire io, appena riuscirò a sentire voi!”
Simona e Rossana scoppiarono in una risata frivola.
Marco immaginò che dalle loro labbra rosseggianti uscisse una lunga starnazzata al posto della voce e il doppiaggio anatrino gli sembrò essere perfettamente verosimile.
Dopo aver salutato le allettanti colleghe, guardò la finestra che dava sul tacito Eden dove aveva passato una stupenda pausa pranzo e sorrise soddisfatto: si era appena procurato una cena con Miss amministrazione e Miss Ufficio Acquisti. Però, niente male per un povero sordo…

Alle 18 in punto arrestò il sistema del suo Pc, che si spense senza il jingle di Windows 10, uscì dall’ufficio con il badge in mano e lo strisciò nell’apposita feritoia appesa il muro.
Appena in strada svoltò a destra, verso l’ospedale, ma la destinazione non lo convinse troppo.
Non ho voglia di andare a perdere tre ore in una sala d’attesa per farmi dire, o meglio, scrivere, che probabilmente non è nulla di grave ma dovrò fare altri due costosissimi esami che, probabilmente, non forniranno risposte certe.
“Sai cosa ti dico? Fanculo all’ospedale, mi godo ancora un po’ di silenzio…”

Riprese la strada di casa compiacendosi del traffico senza voce che lo circondava, salì le scale senza l’eco dei passi fra le rampe ed entrò nell’appartamento senza sentire il rumore delle chiavi. Si spogliò, ruotò il miscelatore sul colore rosso e si infilò sotto all’acqua tiepida della doccia. Il tepore senza suono che partiva dalle spalle fino a raggiungere le punte dei piedi gli diede l’impressione di avere qualcuno che lo stringesse in un abbraccio: perfino l’acqua, privata del suo gorgoglio, sembrava non esistere e il corpo avvertiva soltanto un piacevole calore.
Trentotto minuti di piacere più tardi uscì dalla doccia e, dopo essersi asciugato, prese il phon dal primo cassetto e collegò la spina ai fori della presa. Il getto bollente e silenzioso gli raggiunse la chioma e, rendendosi conto di quanto fosse bello non sentire il rumore di quello spara aria elettrico, vide il suo sorriso riflesso dallo specchio.
Si infilò una tuta e accese la televisione, come d’abitudine.
Pochi istanti dopo la spense, constatandone l’inutilità.
Accese i fornelli, versò l’olio in una padella e vi immerse una cotoletta alla milanese.
L’olio friggeva, senza però emettere il suono di quelle decine di micro detonazioni ustionanti che ricoprono i piani cottura di tutto mondo con una fine pioggia unta.
Mangiò senza apparecchiare e si sedette sul divano a fissare la tv spenta.
“E adesso?”
Guardò la libreria. Esitò qualche secondo e si alzò per andare a sfilare qualche volume troppo impolverato.
“Quanto tempo è che non mi leggo un libro? Beh, quale occasione migliore…”
Ne prese uno a caso e rimase incredulo nel leggerne il titolo: Il giorno del silenzio, di George Gissing. Una raccolta di racconti regalatagli da un amico e che non aveva mai letto.
Si buttò di nuovo sulla morbida alcantara del divano e attaccò l’incipit del primo racconto.
Nessun telefono che suonava, nessun vicino che urlava mentre il figlio piangeva, nessun rumore di tacchi a spillo della tizia del piano di sopra.
In meno di due ore lesse una decina di racconti, immerso in paesaggi immaginari e in totale empatia con i personaggi inventati dallo scrittore.
A mezzanotte si obbligò ad uscire dai mondi fantastici raccontati da Gissing e si trascinò in bagno.
Pisciata e lavata di denti senza sonoro e tuffo sul letto che, come al mattino, non cigolò.
Il pollice premette il tasto per togliere luce all’abat-jour e Marco si trovò al buio, disteso, in silenzio, come tutte le altre notti.
Quello fu l’unico momento di quell’incredibile giornata in cui non avvertì la differenza con il resto della sua vita.

Si addormentò subito.

Alle 6.40 in punto, un suono si diffuse nella stanza in un crescendo metallico.
Marcò si svegliò di soprassalto e drizzò la schiena provocando un forte cigolio sotto al suo sedere.
“Rumori…”
Si alzò per andare in bagno e una bestemmia da scomunica si librò nell’aria come un falco pellegrino, a salutare la vecchia e rumorosa realtà.

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