Oltre il confine

di Mattia Bragadini

 

Silvia fece appena in tempo ad infilarsi in fretta nella sala d’attesa della stazione: fuori, la fitta nevicata che aveva imbiancato la Val Susa fin dall’alba si stava ormai tramutando in pioggia fredda e rumorosa con l’arrivo delle ore più calde della giornata. I suoi vestiti iniziavano ad appesantirsi di acqua e di ansia, mentre il suo cuore batteva ben oltre la soglia.
Per sua fortuna la sala era deserta: le sarebbe servito qualche minuto per riportare le pulsazioni alla normalità e riuscire così a sostenere una qualunque banale conversazione con altri viaggiatori in partenza, senza tradire l’affanno che le rompeva la voce. Cercò di ricomporsi: nella corsa aveva perso il suo berretto di lana, quello blu col pon pon che le aveva ricamato nonna Ines poco prima di morire, un altro ricordo che le sfuggiva, un altro pezzo di vita gettato via, dimenticato lungo il cammino come la pelle ormai inutile di un serpente dopo la muta. Non le piacque quell’immagine, cerco di scacciarla dalla testa sistemandosi i capelli che il nevischio misto a pioggia aveva reso un impiastro appiccicaticcio, si strinse la sciarpa attorno al collo sentendo sulla schiena un leggero brivido di freddo, o di paura. Si lasciò cadere esausta su una panchina, prese un paio di scarpe da ginnastica dalla valigia che portava con sé e si cambiò gli stivaletti, poi staccò con un colpo deciso il tacco di quello che stava per spezzarsi, maledicendosi per non essersi infilata scarpe più comode fin dalla mattina, e ripromettendosi di portarli un giorno a riparare. Forse, un giorno.
Si guardò istintivamente il polso ma l’orologio non c’era più, dimenticato anche quello insieme con altri mille pezzi di passato, allora passò velocemente in rassegna le spoglie pareti di quel posto: non era mai stata da quelle parti né conosceva quella stazione, ma partire da un altro paese le era parsa la cosa più saggia da fare. Sapeva però che lì da anni il servizio di biglietteria era in disuso e i che controllori sul treno erano istruiti a fare il biglietto senza sovrattassa ai viaggiatori in partenza; ma Silvia si era comunque premunita e lo aveva già comprato in precedenza. Sola andata.
Gli occhi si spostarono sulla bacheca dove attaccato in qualche modo con un paio di puntine da disegno c’era uno sbiadito orario invernale, del tutto inutile dal momento che i treni qua fermavano solo quattro volte al giorno, due in direzione Torino e due in direzione Francia, e lo sapevano tutti. Infine lo sguardo di Silvia si posò sul vecchio orologio a lancette sulla parete di fronte: le undici e mezzo, ancora mezz’ora prima del suo treno, una vita per chi ha fretta, un’eternità per chi non vuole avere tempo per pensare. Tutta quella corsa, per poi ritrovarsi a dover aspettare.
Silvia si accorse di essere sudata sotto al maglioncino di lana sottile, si tolse il cappotto e lo appoggiò sulla panchina accanto a sé, fece scivolare la sciarpa lentamente lungo il collo e provò a riprendere il controllo della situazione: sentiva ancora l’affanno ed ora, mentre con una salviettina da viaggio cercava in qualche modo di asciugare il sudore sotto il maglione, tra i seni e sotto le braccia, si sforzava di mandare ossigeno al cervello con lunghi e ampi respiri per abbassare ulteriormente le pulsazioni. Stava iniziando a rilassare la tensione dei muscoli quando un rumore la fece trasalire, Silvia balzò in piedi con un grido mentre la porta che dava sui binari si spalancava rumorosamente riempiendo la sala di una luce inattesa, sulla soglia apparve il capostazione con il soprabito tirato fin sopra il cappello a ripararsi dalla pioggia.

«Mi scusi signorina, non volevo spaventarla.»
«No, no… ecco… non credevo… non pensavo ci fosse ancora personale qua.»
«In effetti non c’è, o per lo meno non c’è sempre. Faccio la spola tra tutte le stazioni da Avigliana a Bussoleno e oggi sono qua per caso. Ma… lei non è di qua?»
«Ehm… no» rispose Silvia continuando a guardare l’uscita sui binari come se da un momento all’altro dovesse materializzarsi un esercito di altri capistazione.
«E le serve un biglietto?»
«No no, mi sono già organizzata, grazie» disse con un sorriso tirato, il più convincente che al momento le riusciva.
«Tempaccio, vero?» cambiò discorso l’uomo.
«Già. A proposito sarà puntuale il treno? Con tutta questa neve…»
«Sì certo, per adesso nessun problema: a mezzogiorno in punto sarà qua».
«Bene, grazie».
Era la verità: infatti, pochi minuti dopo, il fischio del capostazione annunciò l’arrivo del convoglio proveniente da Torino. Silvia uscì sul binario e vide che la pioggia stava già diminuendo di intensità mentre un tentativo di sole cercava di farsi largo tra le vette innevate; attese con una smorfia che lo stridore dei freni si perdesse nel vento e si avviò verso una carrozza in testa al treno, come a mettere più distanza possibile tra sé e quello che si lasciava alle spalle. Dagli altri vagoni non scese nessuno, né altri salirono con lei, e il capostazione, che stava già per fischiare la ripartenza, si tolse per un attimo il fischietto dalla bocca.
«Buon viaggio, signorina. E buon Natale.»
«Grazie, anche a lei!» si sforzò di sorridere Silvia salendo i primi gradini del predellino.

Trascinò la sua valigia nel primo scompartimento e lo trovò libero, ma in realtà l’intero treno le sembrava deserto per quello che riusciva a vedere. D’altra parte chi si sarebbe messo in viaggio in quel lunedì a soli tre giorni da Natale? Solo un pazzo. Un pazzo o un fuggitivo. Quale dei due aggettivi le si addiceva di più? Era forse pazza? Fuggitiva, questo sì. Ma pazza? Le risuonarono nella mente le parole di Jacques, al telefono la sera prima: le aveva detto di stare calma, ma chère, che tutto sarebbe andato bene e in quel momento la sua voce le era sembrata così rassicurante; adesso invece si sentiva nuovamente un fascio di nervi: quell’uomo, poco fa, non solo l’aveva spaventata per averla colta di sorpresa ma per un attimo aveva anche pensato che potesse trattarsi della polizia. Il cappello, la divisa. Qualcuno potrebbe averla vista, ma chi? No, non è possibile, aveva fatto attenzione, aveva seguito scrupolosamente lo schema di Jacques e aveva lasciato quello che era ormai il suo vecchio appartamento molto prima dell’alba: impossibile che fossero sulle sue tracce. E anche ammesso che fosse pazza non si sognava certamente di attraversare la frontiera con una pistola in valigia: la piccola Beretta 81 giaceva già da qualche ora nel letto della Dora Riparia e con un po’ di fortuna sarebbe arrivata al Po prima ancora che la polizia si mettesse in azione. Già, la Beretta. Questa nello schema di Jacques non era prevista.
Cercò di rilassarsi, si sollevò leggermente sulle braccia e poi appoggiò pesantemente la schiena sulla poltroncina imbottita e sentì i muscoli del tronco sciogliersi un poco, ma la gamba sinistra continuava a tremare, scossa da un fremito misto di paura e adrenalina. Chiuse gli occhi e si massaggiò le palpebre, rabbrividendo per il contatto degli occhi con le mani ancora fredde, poi cercò di non pensare a niente, e come sempre accade quando non si vuole pensare a niente, una serie di immagini iniziò ad affollarle la mente.
Margherita, la sua amica del cuore, gli occhi azzurri chiarissimi, i capelli biondi raccolti in una lunga coda di cavallo che le lasciava libera la frangetta sulla fronte; la bimba più bella di San Salvario: una bambola nel suo grembiule rosa con le calze bianche alte fino al ginocchio e le scarpine di vernice. Le scuole elementari fianco a fianco: cinque anni a condividere lo stesso banco in una piccola aula, a scambiarsi i sogni di bambine, a fantasticare sui rispettivi principi azzurri, a immaginarsi spose e madri. E poi, più tardi, ritrovarsi ancora insieme da adolescenti a studiare ragioneria e soprattutto a porsi le prime grandi domande sull’amore, incuranti degli sguardi severi di Saragat ed Einaudi che incombevano sulla scuola.
I pomeriggi di ogni sabato passati in centro a guardare le vetrine, oppure in piazza San Carlo con le altre amiche in attesa di andare a mangiare la pizza al tegamino e poi a ballare. E ancora seguire di nascosto i ragazzi più carini lungo il Po, dal Valentino ai Murazzi, confidandosi segreti, segreti tra ragazze, quando le prime cotte ti fanno sragionare e solo lei, la tua migliore amica, sa cosa vuol dire, sa cosa senti, sa perché non mangi, sa perché non dormi, sa perché non studi più. In quel piccolo mondo privato che non prevede la presenza di genitori o altri adulti.
«C’è un limite all’amore, Silvia? Tu cosa saresti in grado di fare per il tuo uomo?» chiedeva Margherita, ragazzina ma già donna e sempre bellissima. Come per gioco: dire fare baciare, obbligo o verità… una di quelle domande apparentemente innocenti infilate distrattamente nei discorsi tra amiche, tra «Chi ti piace di più tra Robert Redford e Paul Newman?» e «Ma tu ci staresti col prof di mate?»
Ecco qua, Marghe, cosa riuscirei a fare per l’uomo che amo. L’avresti mai detto? Addio amica mia, chissà se ti rivedrò mai più.

Per un attimo il pensiero del suo uomo la tranquillizzò: allontanò dalla mente Margherita e sentì finalmente il cuore rallentare i battiti e le palpebre farsi pesanti, mentre osservava il sole filtrare con sempre maggior vigore tra le nuvole ora alte e bianche. Ma un nuovo rumore improvviso la fece sobbalzare ancora una volta. Era la porta dello scompartimento che si apriva e sulla soglia apparve un altro uomo in divisa.
«Buongiorno. Lei è salita a…»
«No no, cioè sì! Però ho fatto il biglietto. Prima. A Torino» rispose Silvia con troppa fretta.
Il controllore la guardò sospettoso per un attimo e Silvia si rese conto di stare interpretando alla perfezione il ruolo della donna impaurita e in fuga, allora si sforzò di calmarsi e di mostrargli un sorriso rassicurante; nonostante il trucco rovinato dalla pioggia e i capelli ridotti in poltiglia, sperava di avere mantenuta intatta almeno una parte del suo fascino. Fissò allora il controllore con i suoi grandi occhi verdi, gli porse il biglietto e con la voce più calda e dolce di cui era capace gli chiese: «Tutto a posto?»
Il controllore la fissò a lungo a sua volta, e dopo qualche secondo spostò malvolentieri lo sguardo dagli occhi di Silvia al biglietto, poi parve rilassarsi e infine lo obliterò. «Certo, tutto a posto – sorrise restituendoglielo – se ha bisogno di me mi trova alla carrozza quattro.»
«Grazie, lei è molto gentile.»
Silvia attese qualche istante per assicurarsi che si fosse allontanato, poi frugò svelta nel comparto interno della valigia e ne estrasse una mazzetta di banconote, qualche milione per le piccole spese le aveva detto Jacques, poi al resto dei soldi e soprattutto ai diamanti avrebbero provveduto i suoi ragazzi. Si sbottonò i jeans e con un gesto rapido nascose i soldi ben appiattiti negli slip, poi si sedette e tornò a guardare fuori dal finestrino, senza riuscire ad evitare di ripensare ancora a quella folle mattina. Continuava a sentirsi sospesa tra l’eccitazione che la scarica di adrenalina ancora diffondeva nel suo sangue e l’incredulità per essere stata veramente la protagonista di quelle scene, le rivide scorrere come una pellicola proiettata a velocità doppia sulle montagne che stava costeggiando: lei che versa il Roipnol nella camomilla di suo marito prima di addormentarsi, lei che si sveglia nel cuore della notte, lei che apre la cassaforte e la porta di casa agli amici di Jacques, lei che non sapeva che ci fosse una pistola in cassaforte e che in una frazione di secondo decide di non lasciarla nelle mani dei suoi complici, Mario che si sveglia, la paura, il coraggio, lo sparo. Poi tutto buio. Non doveva andare così.
Poi tutto buio. Il treno si infilò nel lungo tunnel del Fréjus e il film di Silvia si interruppe bruscamente, e così da un angolo lontano, nascosto da qualche parte della sua testa, sbucò all’improvviso lo sguardo di sua madre, il sorriso amaro di chi sta contando i giorni, con la luce negli occhi ormai irrimediabilmente spenta dalla malattia. Le parve di sentire sul braccio la sua presa insicura mentre la accompagnava dal letto alla sala da pranzo, sorreggendola mentre muoveva passi piccoli e incerti, intatta nella sua dignità fino all’ultimo secondo: pettinata, ben vestita con i suoi abiti preferiti ormai tristemente abbondanti, senza farsi mancare nemmeno un filo di mascara e un tocco di fard a coprire quel pallore che assomigliava a una condanna. Si rivide seduta accanto a sua mamma davanti allo specchio del bagno, mentre le faceva una lunga treccia con i capelli ancora incredibilmente neri, neri come la notte, come la morte. Si risentì trovare chissà dove la forza e le parole per farle coraggio, simulando la voce sicura che non aveva, ingoiando le lacrime nascosta dietro la nuca di sua madre: «Sei ancora tanto bella, mamma. Non è possibile che tu te ne vada, io non ci voglio credere.»
Si riascoltò al suo capezzale, lucida come se la morte stesse per toccare a lei, con gli occhi asciutti di chi ha già pianto tutto quello che poteva piangere durante gli infiniti mesi dell’agonia. Si risentì dire: «Mamma, tu guidami da lassù e ti prometto che ti darò motivo per essere sempre orgogliosa di me.» Ora quella promessa era frantumata in mille pezzi, colorata del sangue sparso sul suo letto da sposa, annegata nel placido scorrere invernale del fiume, in fuga verso un altro principe, meno ricco ma più affascinante. Ecco come mi guadagno il tuo orgoglio, mamma. Silvia non resse a quell’immagine e scoppiò in rapidi singhiozzi silenziosi, approfittando del vagone deserto, e di quella solitudine che adesso sentiva pesarle addosso come un’armatura.
Di colpo, il rumore del treno dentro al tunnel le parve insopportabile, provò a sistemarsi meglio sulla poltroncina ma le sue ossa adesso tremavano e ogni suo nervo trasmetteva dolore, chiuse gli occhi cercando di scacciare quel pensiero ma dovette invece ricacciare in gola un conato di vomito e cominciò a sudare abbondantemente. Si tolse il cappotto e appoggiò la testa al finestrino, si sforzò di pensare ancora a Jacques, al loro futuro insieme, a tutti quei soldi che proprio in quel momento erano in viaggio verso il conto cifrato di una banca svizzera e poi da lì verso chissà quale paradiso off-shore. Isole Cayman, Santa Lucia, Caraibi, Antille, cosa importa? Ciò che conta adesso è solo mettersi tutto questo alle spalle e cominciare una nuova vita con Jacques.
Dopo tredici lunghi chilometri il treno uscì finalmente dal tunnel, Silvia guardò fuori dal finestrino e tra le lacrime ancora in bilico sulle sue ciglia intravide le prime abitazioni di Modane. Le tornò in mente il viaggio in Savoia che aveva fatto con suo marito l’estate della sua laurea, prima che iniziasse la pratica nello studio notarile del padre: si erano fermati a Modane con la macchina in panne e quell’uomo così gentile e affascinante li aveva aiutati trovando loro un meccanico e una sistemazione per la notte. Jacques: era lui l’improvvisa sforbiciata a una pellicola già recitata, girata e montata, pronta per le sale. L’attico in Via della Consolata regalato dal suocero, il matrimonio sfarzoso da fare invidia alle amiche, una facile vita di agi e priva di preoccupazioni, e un giorno, prima o poi, i figli. Quello squarcio nel film perfetto non ne aveva tuttavia impedito la proiezione, solo era cambiato il finale. E non prevedeva più Mario.
Rivide suo marito emozionato sotto al suo balcone la sera del primo appuntamento, con uno sgangherato mazzo di rose in mano e il cuore pieno di speranza, lo rivide in ginocchio davanti a lei a chiederle la mano fuori da un locale di Montmartre mentre un musicista di strada suonava La vie en rose con la fisarmonica, lo rivide sorridente e impeccabile nel completo blu il giorno del loro matrimonio, e infine rivide il volto di Mario la sera prima, gli occhi sbarrati, la bocca ancora aperta a chiederle perché, il foro d’ingresso del proiettile calibro .38 perfetto al centro della fronte. Non sapeva nemmeno se fosse carica: non aveva mai sparato in vita sua, Silvia. Quest’ultima immagine la svuotò completamente di ogni energia e senza avere più nemmeno la forza di pensare, si abbandonò esausta contro il finestrino e rimase sola con sé stessa e la sua mente finalmente vuota.

Verso Modane splendeva il sole, che si era definitivamente fatto largo nel cielo ed ora si stagliava basso ma sicuro all’orizzonte, tra le poche nuvole che viaggiavano veloci spinte dal vento in quota. Silvia si riscosse, si alzò in piedi, abbassò il finestrino e respirò quell’aria frizzante che la riempì nuovamente di vita dopo tutte quelle tetre immagini di morte. Vide la sua immagine riflessa nel vetro e provò a distendere i lineamenti in un sorriso, si posò una mano in grembo e attraverso la stoffa dei jeans sentì la consistenza della mazzetta sotto gli slip che la rassicurò, si asciugò gli occhi con un fazzolettino e sistemò il trucco meglio che poteva, preparandosi all’incontro con Jacques.
A Modane salirono i gendarmi francesi per il controllo passaporti e la trovarono tranquilla, pronta ad accoglierli con i documenti in mano; probabilmente, pensava, la notizia dell’omicidio di suo marito non era ancora arrivata ai carabinieri in Italia, figuriamoci alla Gendarmerie. Infatti dopo le solite domande di routine, gli agenti le restituirono il passaporto e la lasciarono sola. Silvia ormai sorrideva apertamente: il peggio era passato, l’Italia era alle spalle, ora si trattava solo di aspettare con pazienza l’arrivo a Chambéry e perdersi nell’abbraccio di Jacques. Certo, si sarebbero dovuti muovere ancora con estrema cautela, la polizia italiana avrebbe impiegato poco tempo a collegare la sua scomparsa con l’omicidio di suo marito, una piccola falla nel piano perfetto studiato da Jacques, un danno collaterale dettato dalle circostanze. Sì, proprio così, questo gli avrebbe detto non appena arrivata, ma lui avrebbe trovato subito una soluzione anche per questo problema. Era così deciso, così sicuro di sé; e così affascinante, ammise, tanto affascinante da essere riuscito a convincerla a mettere in atto un’idea così diabolica.
Finalmente all’orizzonte apparve la stazione di Chambéry e Silvia si alzò in piedi ben prima dell’arrivo per recuperare la sua valigia dalla cappelliera, saltò giù dal treno con impazienza senza quasi attenderne l’arresto e sul marciapiede iniziò a cercare con lo sguardo gli occhi di Jacques. Non era ancora arrivato. Forse un piccolo imprevisto?
Si diresse al bar, pagò un caffè con cinquemila lire per avere qualche spicciolo di franco in cambio ed entrò nella prima cabina telefonica, una radio trasmetteva il tormentone di quell’anno: “Eh toi, dis-moi que tu m’aimes, même si c’est un mensonge…”.
Compose con naturalezza il numero di casa di Jacques ormai imparato a memoria, ma il telefono squillò una decina di volte a vuoto. È in viaggio, sta arrivando, pensò cercando di tranquillizzarsi. Proprio in quel momento il barista si rivolse a lei: «Madame Silvia?»
Silvia si voltò stupita e trovò il barista sorridente con una piccola busta in mano che le faceva cenno di avvicinarsi. «Oui?» rispose incerta. «Une lettre pour vous.» «Una lettera… per me…» ripeté meccanicamente tentando di farsi scivolare addosso quella strana sensazione che iniziava a pervaderla. Prese la busta e la aprì nervosamente fino ad estrarne un foglietto scritto a mano e firmato semplicemente J. C’era solo una frase: “Parfois on gagne, parfois on perd. Adieu, ma chère!” [1].
Silvia si guardò intorno incredula e mentre cercava di mettere in fila i pensieri e darsi una spiegazione per quello che sperava fosse solo uno stupido scherzo, si sentì chiamare di nuovo in francese, ma in tono molto meno amichevole: «Madame Casetti?». Questa volta erano gli agenti della Gendarmerie: si voltò a guardarli e in quel momento la verità la travolse in tutta la sua evidente chiarezza. Il suo volto si sciolse in un’espressione di stupore che rapidamente si trasformò in uno sguardo di malinconica e sconsolata ammirazione per il genio di Jacques. Annuì tra sé e sé e gli dedicò un piccolo applauso appoggiando delicatamente due volte un palmo sull’altro.
«Ehi tu, dimmi che mi ami, anche se è una bugia…» mormorò Silvia sottovoce, «Quoi?» le chiese un gendarme che le stava mettendo le manette per portarla fuori dalla stazione e poi accompagnarla in caserma. «Oh, non, rien…» rispose mentre una lacrima silenziosa le scendeva lungo una guancia. Silvia si voltò un’ultima volta a guardare le montagne e vide il sole spegnersi lentamente nei colori del tramonto. Era il giorno più corto dell’anno.

[1] A volte si vince, a volte si perde. Addio, mia cara!

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