Incroci

di Massimiliano Renaud

 

Filippo si lasciò scorrere alle spalle il portone del condominio, la mano destra piantata nella tasca della giacca a sfiorare quella maledetta lettera che non riusciva a decidersi a spedire. Il gelo dell’alba milanese gli ghiacciava il cuore mentre si avvicinava alla cassetta rossa appesa al muro, affrettò il passo per cercare di scappare dai mille dubbi che ancora lo incalzavano, estrasse la busta sentendosi un vigliacco e la lasciò cadere facendo ondeggiare la placca di metallo.


Il riflesso del sole caldo del sud costrinse Paola a indossare un paio di occhiali scuri, erano un suo regalo, che le ricordava di quando ancora smaniava nel vederlo scendere dal treno per sentirsi come in un film romantico anni cinquanta. Entrò nell’ufficio postale stringendo la busta fra le mani, con l’unico rimpianto di non avergli potuto sputare tutto in faccia perché lui, anche questo fine settimana, non sarebbe venuto. “Lo sai, tesoro, il derby non lo posso perdere per nulla al mondo.”
“Pezzo di merda.”

Qualche giorno dopo Filippo rientrò tardi dal lavoro, raccolse la posta dalla cassetta e la infilò nella tasca posteriore dei jeans senza far caso a chi gli avesse scritto, entrò in casa e gettò sul tavolo la corrispondenza.
Accendendo il fuoco sotto ad una pentola, notò una calligrafia familiare su una delle buste. Un brivido gli attraversò le vertebre fino alla base del collo: qualcosa stava per andare storto.
Si lasciò cadere sul divano ed estrasse il foglio dal suo involucro.


Ottocento chilometri più a sud, Paola tornò da una corsa sulla spiaggia
e accolse con un sorriso il portiere che le veniva incontro con una busta bianca all’apparenza anonima. Ma anonima, in realtà, non era. Quella calligrafia nervosa e appuntita era proprio quella di colui che, ormai, era diventato soltanto un errore da dimenticare.

Dopo aver letto con famelica curiosità, Filippo rimase inebetito a fissare il soffitto per cinque minuti, trafitto da quelle parole intrise di veleno che lo costringevano a scontrarsi con l’impietosa verità: stava sbagliando tutto. L’aveva trascurata quasi fino ad ignorarla, l’aveva offesa, e l’aveva anche tradita. Provò a chiamarla ma il telefono restava muto, passò la notte senza chiudere occhio e al mattino, invece che al lavoro, andò in Centrale per salire sul primo treno con direzione sud.
Come spesso capita a chi viene lasciato, si stava accorgendo che l’amava ancora, che doveva provare a rimediare, sperando che lei non avesse ancora ricevuto la sua lettera.

Paola lesse d’un fiato il solito campionario di stronzate che ci si sente raccontare in questi casi e spense il telefono: non voleva rischiare di sentirlo. Dormì poco e male ma quando si svegliò, la sua mente era lucidissima e aveva già deciso che quel bastardo non poteva cavarsela con quattro righe buttate giù in fretta, magari seduto in metropolitana. Doveva farsi ripagare cinque anni buttati nel cesso, doveva vendicarsi. Riempì una sacca con l’intimo di ricambio, un paio di maglioni, jeans e scarpe comode. Prese l’orsacchiotto portafortuna che, come sempre, la proteggeva seduto sul comodino, e corse alla stazione per trovare un treno che la portasse verso la rivalsa. Non trovò collegamenti diretti, avrebbe dovuto cambiare a Roma ma non voleva aspettare un solo attimo in più, e comprò il biglietto.


I due convogli avanzavano con rotte opposte trasportando inconsapevoli quell’incrocio di destini. Filippo si risvegliò dal torpore quando il treno fece una delle sue fermate, scese svelto dal vagone per verificare a che punto fosse il viaggio e accese una sigaretta, cercando nel vizio un minuto di sollievo.
Paola vide il cartello Roma Tiburtina, prese il bagaglio e scese dal treno alla ricerca del binario dove avrebbe atteso la coincidenza per Milano.
La pioggia cadeva come una cascata su quelle anime tormentate, entrambi cercarono riparo in un sottopassaggio e si incamminarono l’uno verso l’altro, illuminati dalle luci al neon, con la testa bassa e i capelli fradici incollati al viso. Arrivati senza riconoscersi a qualche metro di distanza, il destino fece uno dei suoi scherzi e sollevò contemporaneamente i loro volti.
Gli occhi dei due ex innamorati entrarono in contatto.
Restarono immobili, senza respirare, come se il tempo avesse improvvisamente deciso di interrompere la sua corsa nei sotterranei di quella stazione.


“Paola…ma cosa…cosa ci fa qui?” Abbozzò lui con il poco fiato che riuscì a far salire dai polmoni.
“Vedo che almeno ti ricordi il mio nome.”
“Senti, so di aver sbagliato a mandarti quella lettera, ma lo hai fatto anche tu, quindi fingiamo di non averle mai spedite, ok? Troveremo una soluzione per tutto…”
“Io non ho intenzione di fingere nulla, piccolo, lurido, verme, io non ho voluto ma ho dovuto spedire quella lettera e di certo non mi pentirò di averlo fatto. Hai rifiutato ancora una volta di vedermi per la tua cazzo di partita e ti meriti ogni singola parola che ti ho scritto, sei solo un bambino viziato ed egoista. Non voglio vederti mai più.”
“Sì…sì, lo so, ho sbagliato ed è per questo che ho attraversato mezza Italia per chiederti scusa. Per favore, dimentichiamoci quelle lettere idiote e ricominciamo tutto. Non te ne chiederò altre, dammi l’ultima possibilità.”
“Possibilità? Ho passato anni a darti ultime possibilità! Quello che dovevo dirti è nero su bianco nel tuo salotto e quello che mi hai scritto tu, non ha fatto altro che convincermi di non essermi sbagliata. Le lettere non sono il motivo per cui ci lasciamo, Filippo, ma soltanto il resoconto di un amore che non esiste più.”
“Ascoltami, ti prego, fino a ieri non sapevo quello che volevo ma ora ho capito. Voglio stare con te, sono tre giorni che annego nei sensi di colpa per quello che ti ho fatto passare. E poi, se davvero avevi tanto bisogno di vedermi, perché non sei venuta tu a Milano? Non ricordo di averti vista tante volte a casa mia. Evidentemente, se non vengo io a trovarti, sai comunque come spendere il tuo tempo.”
Paola divampò.
“Sai benissimo che mia madre non sta bene e non posso allontanarmi da casa nemmeno per un fine settimana! E dì pure ai tuoi stupidi sensi di colpa che avrebbero dovuto farsi vivi ogni volta che hai rifiutato di vedermi con delle scuse ridicole, o tutte le volte che sei sceso a casa mia facendomelo pesare come fosse un favore! Hai preferito passare le vacanze con gli amici invece che con me, mi hai tradito con quella troietta della tua collega e io, stupida, ti ho anche perdonato. Mi hai fatto vivere in un incubo Filippo ma ora, finalmente, mi sono risvegliata.”
“Senti, hai ragione, va bene? Ma adesso non sarà più così, verrò da te ogni volta che vorrai, ti dimostrerò con i fatti che non voglio perderti. Sono disposto anche a lasciare per sempre casa mia, anzi, magari troverò un lavoro e mi trasferirò.”
“Filippo… Tu sei pazzo! Trasferirti? Vivere insieme? Al mio paese non metterai più piede, la nostra storia è sepolta sotto la montagna di stronzate che mi hai raccontato e io ho finito di soffrire a causa tua! Ti do un consiglio Filippo, vattene prima che sia troppo tardi…”
“Non puoi farmi questo, amore mio, chiedimi qualsiasi cosa io possa fare per avere il tuo perdono e la farò.”
Lei lo fissò con uno sguardo che parlava di dolore, di sofferenza, di vendetta.
Salì le scale verso i binari, lui la seguì e le afferrò un braccio cercando di nascondere l’angoscia che si stava trasformando in lacrime.
Filippo teneva lo sguardo fisso a terra mentre gli occhi neri di Paola restavano inchiodati sul volto piangente di lui. Poi, con un filo di voce deformata dalla rabbia, lei scandì senza pietà:
“Amore mio? Ma quale amore mio? Io ti odio Filippo! Ti odio come si odia un assassino! Perché tu mia hai uccisa cento volte, e non te ne sei nemmeno accorto!”
Lui crollò su una panchina e sentì lo stomaco salirgli in gola, un urlo disumano gli montò dal cuore ma rimase strozzato fra i denti, mentre un fiume di lacrime amare si univa alla pioggia nella discesa verso le mattonelle sporche.
Lei mise mano al bagaglio ed estrasse un batuffolo di pelo con grandi orecchie e occhi inespressivi. Un colpo, assorbito da un silenziatore e dal rumore della gente, macchiò di rosso scarlatto la camicia di Filippo che rimase lì, statua piangente, senza vita.

I capelli fradici le avvolsero la testa nascondendo il viso mentre il corpo si dissolveva in un’orda di turisti e pendolari.
Un gesto della mano, e la fretta di un treno schiantò il cuore metallico del suo angelo custode di pelouche.

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