Ma tu sarai maggiore tra loro

di Dania Carpi

La salvezza

“Ma tu sarai maggiore tra loro. Poiché sacrificherai l’uomo che mi riveste”

Gesu’ nel Vangelo di Giuda

Milano 1496

Tic…Tic…Tic…

Sangue che cola…le meningi urlano…

Tic…Tic…Tic
Esco, ho bisogno di respirare.
L’occhio si sofferma sulla strada, sulla polvere sollevata dai passi frettolosi, sui piedi neri, emaciati.
L’orecchio indugia sulle risate, sui tonfi delle pacche sulle spalle, sulle parole biascicate nelle bocche mal curate.
La Milano degli sfarzi e degli Sforza.
– Torin, che tu sia maledetto! Non ti pago per poltrire fuori bottega!
Rientro.

Tic… Tic… Tic…
C’è odore di piscio qui dentro.
Il ticchettio è sempre più lento.
Stacco la carcassa dal gancio, la scuoio con meticolosa destrezza.
Adesso non sei più niente, sei solo un ammasso di carne rosa. Penso.
Affilo il coltello e affondo, frantumo le ossa, lo smembro…
Mi sento osservato.
– Ciao Elga – la fanciulla trasalisce – Cosa posso fare per te?
– Cosa ti ha fatto questo povero agnello, Ettore? –
La mia bocca accenna un lieve sorriso.
– Niente Elga, niente, tuo padre vuole che per questa sera tutto sia pronto ed oggi è giorno di paga!
Lei abbassa lo sguardo e, arrossendo, sussurra – Mi chiedevo se Giovanni fosse già passato oggi…-
– No, non è passato e non credo passerà! –
Sul suo volto scende un’ombra scura.
Giovanni, il bel Giovanni, quanti cuori ha rapito il Bel Giovanni!

Alzo lo sguardo, Elga non c’è più.
“Giovanni, amico mio, potrà mai esserci il perdono per me?”
Ho assistito avvelenato alla tua ascesa. Tu, aitante, forte, fiero, il sole baciava la tua chioma dorata regalandole i riflessi luminosi dell’acqua, occhi come zaffiri, puri, limpidi e lucenti. Calzavi l’armatura senza fatica aiutato dalle spalle forti, dalle gambe poderose, ogni donna avrebbe fatto pazzie per un tuo sorriso ed io ero al tuo fianco, ancora forte, ancora complice.
L’odio se ne era rimasto accovacciato in silenzio, si era zitto zitto mascherato da amore ed io ti seguivo, dov’era Giovanni v’era anche Ettore!
Poi i tuoi zaffiri persero il brillio e vestirono la tinta statica degli stagni, ogni volta che poni lo sguardo su “ciò che sono” i tuoi occhi di lago trasudano pietà, si velano di senso di colpa.
Tu non scorgi più l’uomo che sono, la forza che mi sorregge, tu osservi il mio corpo traditore che non ha saputo riprendersi! Hai riservato per me la devozione che si da agli infermi, ai deboli, e allora il mio odio si è fatto audace ed ha gridato così forte da ottenebrare la mia mente.
Come una belva affamata agognava la tua fine.
Non è stato facile depredarti di tutto, Giovanni… ci sono voluti anni, anni maledetti e tormentati.
In principio mi approfittai del tuo senso di colpa. Un povero storpio aveva bisogno di svagarsi e tu mi accompagnavi tra vino e bordelli dilapidando la tua paga da guardia armata. Fu durante una delle tanti notti finite nel vomito che riuscii a rubarti il tuo pegno d’amore… hai pianto come un bambino ed io ho bevuto il sale delle tue lacrime fingendo sgomento e angoscia, ti ho inflitto l’ultimo vigliacco colpo fatale.
Dormivi nel vicolo buio, la testa mal riposta di lato e anche in quella ignobile occasione parevi un angelo, Giovanni! Frugai nella tua bisaccia fingendo di cercar moneta e sentii la seta liscia della sacchetta che custodiva la sua treccia.

L’estate del 1492, la mia fine, la ricordo ancora come l’estate più bella della mia vita.
Eravamo stati scelti.
Io e te, ancora dannatamente insieme, lasciavamo la polverosa Milano in sella ai bianchi destrieri dello Sforza e scortavamo l’incantevole novizia sposa a Venezia.
Beatrice d’Este, la bella e triste moglie di Ludovico, quella mattina era più incantevole che mai.
Il mio cuore imparò a desiderare dolorosamente e mi sentii d’un tratto attaccato alla vita, perché posare lo sguardo su tale creatura era come trasportare l’anima in un luogo di pace assoluta. Poco importava se mai avrei potuto averla, mi sarebbe bastato contemplarla e venerarla.
Teneva lo sguardo basso, la mia Signora, come si confà alle donne pure d’animo ma all’occasione sapeva mostrare di aver ereditato l’ardore e la fierezza del padre Ercole, parlava a ragione regalandoci parole che solo un’attenta e curata cultura poteva esprimere e la sua voce era sinuosa come la sua carne perlacea, sempre cortesi quelle labbra carnose e quando rideva, usava coprirsi la bocca con le mani sottili.

Desiderai di essere pittore per imprimere per sempre la perfezione.

Faceva caldo quella sera a Venezia e gli abiti si attaccavano fastidiosamente alla pelle. La laguna era buia come avesse steso un manto per nascondere le sue nefandezze, la scelleratezza della città, ricca e avara, orgogliosa e menzognera.
Noi attendavamo fuori dal palazzetto appoggiati alle pareti impregnate di umidità, Beatrice uscì accompagnata dalla massiccia porta di legno:
– Desidero recarmi al più presto nelle mie stanze, questo bustino mi opprime! –
– Come voi ordinate, mia Signora. – rispondesti.
Nemmeno il buio riuscì a celare la fiamma nera nel tuo sguardo, parevi un falco pronto all’attacco e forse fu quel tuo perdersi nei suoi occhi d’onice che non ti fece accorgere dei loschi figuri che ci stavano piombando addosso.
Mi ersi io a proteggerla, fui io a rimetterci la mano!
Fui io, Giovanni, non tu! Io ho passato notti e notti insonne urlando per il dolore all’arto che non c’è più!
Sempre io, quello che dovette lasciare la guardia.
– Il minimo che io possa fare è assicurarvi una buona occupazione, Ettore, mi avete salvata – ricordo la voce incrinata dal pianto.
– Conoscete il mio nome, mia Signora, questo mi salverà!  – risposi divorato dalla febbre.
Ora ammazzo gli agnelli, Giovanni, li guardo ammirato mentre compiono i primi instabili passi e poi mi tocca sgozzarli mentre urlano e strepitano. E ogni volta una parte del mio cuore si tinge di nero. Nero, come la treccia dei suoi capelli che conservavi in quella sacchetta di seta. Non ho voluto sapere come l’hai ottenuta, non avrei potuto sopportare oltre.
Tu conoscevi il mio amore per lei, fosti tu stesso a dirmi che in preda ai deliri invocavo il suo nome.
Così ti rubai il vostro pegno d’amore, la sua treccia, la tenni fra le mani tutta la notte, la baciai mi ci accarezzai il volto e poi, alla prime luci dell’alba, piangendo la posi nelle mani di Agnese, serva di corte. Bastò raccontarle che ero in pena per te.
L’ira di Ludovico è famosa e io dissi di temere troppo per la tua incolumità!
Lei, addolorata, la prese. Rimangono ignote le parole che usò con Beatrice, forse gliela rese dicendole che ormai il tuo cuore era di Rosa, la giovane figlia del fornaio, ma ebbero comunque l’effetto desiderato e da quel giorno tu non facesti più parte della sua guardia personale.
Finalmente, eri menomato anche tu!
Il bel Giovanni ora vive solo nel ricordo. Ora le risse nelle osterie hanno deturpato il tuo perfetto profilo patrizio, il vino ha ammorbidito le tue carni, i tuoi occhi non mi guardano più in pena perché ormai, la pena che provi per te stesso è ben maggiore, amico mio!

-Messer Leonardo, qual buon vento vi porta nei paraggi? – la voce di Antonio squarcia i miei pensieri d’improvviso.

Mi affaccio, Antonio, il proprietario della bottega parla con l’uomo d’arte dello Sforza, tal Leonardo Da Vinci.

Li sento parlare ma i toni del Da Vinci sono così pacati e amabili da non farmi seguire il filo del discorso. Personaggio affascinante, Leonardo, stonato tra queste lerce vie come una colomba in uno stormo di corvi.

– Girate spesso, mi dicono, in questo periodo nei vicoli più popolati della città. Qualsiasi cosa Antonio può fare per voi e per il nostro Magnanimo Ludovico, sarà fatto –
– Non allarmatevi, Antonio, chiedo solo il permesso di sostare un po’ nella vostra bottega. –
– Per così poco, Leonardo… entrate certo! Volete che vi faccia ammazzare un capretto? State ancora studiando il corpo animale?
– Non vi disturbate, ho solo bisogno di osservare il vostro aiutante.
– Ettore? E, se non sono indiscreto, a cosa vi serve un monco? Ma prego, prego accomodatevi e perdonate il disordine, mia moglie è indisposta in questi giorni!

Lo osservo, si siede su una botte che utilizziamo per gli scarti da dare ai maiali, mi guarda, ed estraendo un plico di fogli mi dice:

– Fate pure come se io non ci fossi, non vi disturberò.
Lavoro, scuoio, smembro, mi inzuppo di sangue e lordura ma non sono abituato ad avere spettatori e innanzi a lui, mi sento nudo come se riuscisse a leggere nel profondo della mia anima e potesse imprimere sul foglio i miei segreti… ne ho paura.
– Voglio sapere a cosa vi servo… – sbotto.
Lui si ferma, io, in imbarazzo, continuo: – Perdonatemi, forse sono inopportuno, continuate pure.
– Più che lecito chiedere, ho bisogno di volti… sto lavorando per la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, sarà un grande dipinto, un’opera di vaste dimensioni per il Refettorio.
– E cercate brutte facce come la mia per tanta sacralità?
Continuando a disegnare mi risponde. – Devo trovare il volto di Giuda e lo devo trovare in chi conosce la sofferenza, in chi convive con il tormento.
Mi faccio sempre più temerario.
– Per questo siete solito invitare a cena i peggio malfattori della città, in questi tempi?
Il suo volto si illumina in un fragoroso sorriso.
– Proprio per questo! Siete nel giusto!
– E dopo tanto tempo, non avete ancora trovato nessuno? Milano pullula di brutte facce tormentate! – Rido.
– Non sono ancora soddisfatto – riprende Leonardo – ho bisogno di trovare qualcuno che non si sia ancora totalmente perso…

Lo guardo sospettoso, lui abbassando lo sguardo e, continuando a graffiare il foglio, riprende: – Conoscete le teorie di Tommaso d’Aquino?
– Ammazzo gli agnelli per vivere, sono monco e a malapena so leggere…
– Le orecchie però mi sembrano ancora funzionanti, vecchio mio! – mi rimprovera – D’Aquino sostiene che anche Giuda ebbe l’opportunità di scegliere… ecco, io voglio imprimere quel momento! L’attimo esatto in cui Gesù disse “In verità vi dico, uno di voi mi tradirà!”. La guerra interiore fra il tradimento e la fedeltà.
– Lo vendette per dei soldi, dicono … – dissi
– Lo tradì per troppo amore – incalzò – il suo orgoglio non poteva sopportare di amarlo così tanto!

Fu come ricevere una pugnalata in pieno petto, il respiro mancò per un istante, mi girai di profilo per nascondere le lacrime.

– Rimanete così vi prego! – chiese Leonardo.

Posso ancora scegliere, Giovanni, posso venire a cercarti e salvarti, sollevarti dal fango, cingerti le spalle e accompagnarti, oppure posso metterti in croce, continuare sadicamente ad alimentare il tuo dolore così da dannarci per sempre, posso invece meritarmi il tuo perdono?

Respiro profondamente, stringo i pugni e mi rigiro, Leonardo ripone i fogli:
– Ho terminato. Tolgo il disturbo!
Mi sento esclamare – Farete un’altra cena, Leonardo? – Non voglio che se ne vada.
– No! Ho finito le mie ricerche. Buon lavoro Capitano! – E se ne va col suo incedere elegante.

Ripongo i coltelli che è giunto il tramonto,

Antonio lascia sul banco una sacchetta coi pochi denari di paga.
Esco tra la polvere, in cerca di salvezza.
“Preso il boccone, subito uscì. Ed era notte.” Giovanni (13,30)

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