I left my soul on Californian soil – Part Three

di Mattia Bragadini

Da Santa Barbara a Palm Springs

Una delle caratteristiche principali delle vacanze natalizie è quella di perdere il conto dei giorni, anche se siete a casa in pantofole immersi nel Christmas Day dell’NBA. Ora, immaginate di essere invece dall’altra parte del mondo, in un altro clima (vabbè, almeno in teoria…) e all’ultimo giorno dell’anno. In sintesi, io e Benedetta ci rendiamo improvvisamente conto che oggi è domenica e da bravi cattolici cerchiamo un modo per assolvere al precetto festivo. Per fortuna (anzi, grazie a Dio, che è più in tema) a Santa Barbara le chiese cattoliche non mancano, d’altra parte è stata fondata da missionari spagnoli come buona parte della California.
Così dopo colazione, ci impadroniamo della Pacifica di cui detengo il potere (e soprattutto le chiavi), da bravo cavaliere aiuto Ben a scendere la sua valigia dal primo piano e a caricarla in macchina, diamo appuntamento agli altri sul Waterfront dopo la Messa, e facciamo rotta verso la parrocchia di Our Lady of Sorrows, che è proprio in direzione dell’oceano e di downtown.

La facciata della chiesa di Our Lady of Sorrows

La chiesa (che in italiano sarebbe una sorta di “Maria Addolorata”) è bellissima con le sue candide facciate in tipico stile missione spagnola, e l’interno è luminoso, accogliente e decorato con un grande presepe. Veniamo accolti da un Gentile Volontario che, vuoi per l’accento non esattamente californiano, vuoi perché ci perdiamo nello scattare decine di foto, si accorge subito che siamo visitatori e attacca simpaticamente bottone chiedendoci da dove veniamo e dove andiamo, anche se in senso più fisico che spirituale. Forse non si aspettava che venissimo da 9.000 chilometri più a est, ma ne resta evidentemente colpito, tant’è che mentre scatto foto allo splendido presepe, Ben mi si avvicina dicendomi che il Gentile Volontario le sta chiedendo qualcosa che non riesce a capire. Allora provo a farmi ripetere la domanda e il Gentile Volontario ci sta semplicemente proponendo di essere noi a portare le offerte all’altare. Così, gentilmente. Lo chiede a noi, i visitatori italiani che manco fanno parte della parrocchia. Spiego la situazione a Benedetta ma prima ancora che le chieda se le va, i nostri sguardi si incrociano e si mandano lo stesso messaggio: “Figata!”.

L’interno della chiesa

Il Gentile Volontario (sì certo, potevo pure chiedere il suo nome, ma ormai…) ci spiega allora i tempi e i modi con i quali dovremo assolvereal rituale, e ci fa accomodare in un banco appositamente riservato ai fedeli addetti a questo compito. Seguiamo la Messa, rispondendo un po’ in inglese e un po’ in italiano in base a quanto ci aiuta l’indispensabile foglietto con la liturgia, e non senza un certo patema d’animo, in attesa del nostro momento. Quando Mister Gentile Volontario ci supera con il cestino della questua è il segnale convenuto: ci alziamo e iniziamo la nostra camminata lungo la navata e verso il Sacerdote, con addosso tutti gli sguardi dell’assemblea. Vabbè, sicuramente molti più sguardi si posano su Benedetta, ma tanto lei è abituata. Il Sacerdote dopo aver accolto le offerte ci impartisce una lunga e solenne benedizione individuale e torniamo ai nostri posti con un sorriso emozionato e vagamente ebete (per lo meno il mio).
La liturgia americana è del tutto identica alla nostra; caso mai stupisce la totale assenza di canti (non che mi aspettassi i cori gospel che sono tipici del rito battista, ma qualche canto in stile italiano sì), ma che forse, ci chiediamo, è limitata alla sola parrocchia in cui ci troviamo. Mentre è molto emozionante alla fine il saluto che viene rivolto dal Sacerdote agli eventuali visitatori (a domanda, io e Ben alziamo timidamente la mano e veniamo salutati nuovamente da tutti i presenti), e molto particolare la seconda raccolta di offerte, a funzione ormai terminata, da parte di gruppi di volontari che poi si “sdebitano” offrendo caffè e ciambelle nel locale attiguo. Io e Benedetta (che sta anelando donuts da giorni senza trovare soddisfazione) saremmo anche tentati, ma si è fatto tardi e dobbiamo raggiungere il gruppo. Salutiamo calorosamente il Sacerdote (altra bella tradizione: si posiziona all’uscita e ringrazia tutti i fedeli) e riprendiamo possesso della Pacifica.

I ragazzi sono già lungo il Waterfront ma, tra colazione, consegna chiavi e recupero bagagli, non sono arrivati molto prima di noi. Parcheggiamo dove impeccabilmente ci ha indicato Samantha e li raggiungiamo a passeggio lungo il molo di Stearns Wharf e sul lungomare (lungo-oceano si dice?) dove si susseguono bancarelle che vendono piccoli oggetti artistici, stampe e souvenir. Lo spettacolo unico delle montagne che declinano dolcemente verso l’oceano in maniera molto più gentile rispetto al Big Sur è il set perfetto per un’altra tornata di scatti instagrammabili: i monti che lasciano il posto alle palme, che a loro volta diventano sabbia, i nostri sguardi rivolti all’ampiezza sconfinata del Pacifico. Tradisco momentaneamente la mia partner in pictures Melania e con Benedetta ci scambiamo scatti che finiranno ben presto nei nostri feed e nelle nostre foto profilo.

Il Waterfront di Santa Barbara

Sarebbe poi meraviglioso andare a visitare la splendida Vecchia Missione ma, come sempre, abbiamo i minuti contati e tanta strada davanti a noi per raggiungere Palm Springs. A volte dimentichiamo che 200 miglia non sono esattamente 200 chilometri e che spesso si traducono in più di tre ore di strada: ci aspetta un altro bel tratto di 101 e se vogliamo arrivare in tempo per la nostra cena di New Year’s Eve occorre metterci in marcia. In più è domenica e da bravi americani (per quanto in prestito) non possiamo aspettare le tre come al solito per mangiare: è l’ora del brunch. E brunch in California si traduce necessariamente IHOP.

Per quanto l’acronimo (International House of Pancakes) rimandi all’alimento principe di ogni brunch a stelle e strisce, il menù di questa catena di spacciatori di calorie spazia dalle uova in tutte le loro forme (strapazzate, in omelette, alla Benedict,…) ai waffles, dai frech toast ai sandwich, senza trascurare hamburger, insalate, torte e dessert. Le porzioni sono ovviamente americane, ulteriormente rinforzate dall’idea che questa colazione debba servire anche da pranzo; per intenderci i miei 4 (quattro!) pancake hanno il diametro di un 33 giri, sono conditi con tre dressing diversi tra creme e sciroppi, prevedono un topping di panna montata, e un panetto di burro a parte nel caso li trovassi troppo leggeri.

Il brunch da IHOP

Ci sarebbe di che sfamare l’intero centro di accoglienza di Lampedusa e invece si tratta di porzione singola. Davanti a questo ben di Dio, stranisce la persistente inappetenza di Stefano, che continua la sua personalissima battaglia con le fettuccine Alfredo e purtroppo al momento sembra soccombere.
Ce ne prendiamo cura io e Benedetta (ormai eletta mia copilota e in postazione fissa sul lato passeggero della Pacifica) sistemandolo nel salottino posteriore del monolocale, dove può stendersi, guardare video trash, o sonnecchiare, tanto abbiamo la musica a palla a sovrastare eventuali segherie. Ma come si fa ad addormentarsi davanti a quello che stiamo vivendo?

L’unica riflessione che può in qualche modo descrivere il percorso da Santa Barbara a Palm Springs è che avrei voluto essere doppio. Nel senso che da una parte l’esperienza di guidare in quella situazione mi ha regalato una sensazione unica e irripetibile, dall’altra avrei voluto essere contemporaneamente anche sul lato del passeggero per immortalare ogni secondo di quel viaggio pazzesco.
Da Santa Barbara, l’Interstate 101 taglia la California in senso longitudinale e, dopo aver costeggiato l’oceano per un breve tratto, si tuffa decisamente verso est – sudest, lasciando alla nostra destra l’intera Los Angeles di cui cominciamo a respirare l’atmosfera già solo leggendo i cartelli delle uscite che si susseguono: Beverly Hills, West Hollywood, Glendale, Pasadena. Ma questo è il programma della prossima settimana, ci lasciamo allora L.A. alle spalle e abbandonando l’Interstate cominciamo a entrare in un altro mondo. All’altezza di Riverside il panorama si fa brullo e colorato: le spoglie alture intorno a Lake Mathews da un lato, i 1000 metri delle Box Spring Mountains dall’altro; dietro di noi il tramonto che regala una luce diversa al panorama ogni minuto che passa; davanti a noi, in lontananza, il deserto solcato solo da questa lama di asfalto che sembra portare nel nulla.
La playlist della California in modalità casuale sceglie pezzi perfetti per il momento (Red Hot Chili Peppers, Bruce Springsteen, Doors, Black Keys, Chuck Berry, Neil Young, Lana Del Rey, John Mayer, R.E.M., Tom Petty,…) quasi fosse partecipe della situazione, guido con la pelle d’oca per non so quanto tempo e lo ripeto mille volte a Benedetta, “Ma cosa stiamo facendo, Ben!?”, e lei, ammirata quanto me, scatta al mio posto tutte le foto che non riesco a fare. Vorrei non arrivare mai più.

Da Santa Barbara a Palm Springs – On the road

Invece ben oltre il tramonto, all’improvviso ci compare davanti Palm Springs, come catapultata in mezzo al deserto da un’altra dimensione, come calata dall’alto da un’astronave aliena. La mia macchina e quella di Giorgio sono in ritardo rispetto al gruppo Giovanna – Samantha – Melania, perché da un lato Giorgio ha chiesto una sosta caffè lungo la strada e dall’altro Stefano ne ha approfittato per l’ennesimo round del suo match contro le fettuccine. Almeno adesso dovrebbe essersene liberato definitivamente. Così, saltiamo il primo appuntamento in città presso il monumento Forever Marilyn, una gigantesca statua di Marilyn Monroe che rappresenta l’iconica (ooops! I did it again!) sequenza di Quando la moglie è in vacanza, e raggiungiamo il Best Western Inn per prepararci per il nostro veglione: io, Stefano e Giorgio prendiamo possesso di camera, doccia, deodoranti e rasoi (con i pettini, tra tutti, ci facciamo poco…), lasciando le nostre girls a intoparsi, come direbbero a Livorno.
Stefano, tuttavia, mostra ulteriori segni di cedimento: ferma restando la tradizionale posizione prona sul letto con i video trash in loop sul telefono, sembra non essere in grado di affrontare la serata. Io e Giorgio proviamo a spronarlo: ok, siamo in vacanza per quasi due settimane e perdersi una serata non è la fine del mondo, ma è pur sempre l’ultimo dell’anno. Ma non c’è niente da fare: decide di restare in camera, saltare l’ennesimo pasto e riposare per prepararsi al viaggio di domani.

Restiamo così malinconicamente in otto e con puntualità elvetica alle 20:45 siamo alle macchine, perfetti per la nostra prenotazione al The Village delle 21. L’intopamento delle nostre ragazze è perfettamente riuscito e mentre io e Giorgio sembriamo due scappati di casa, loro sono super carine. L’unico problema è che non hanno fatto i conti con due fattori non secondari la sera del 31 dicembre: il primo è che l’escursione termica nel deserto si fa sentire in misura ancora maggiore rispetto alla costa, il secondo è che gli amici del The Village ci hanno riservato un simpatico tavolo all’esterno, “riscaldati” da un misero fungo. Chissà se loro lo chiameranno mushroom? In sintesi, si gela. Alina e Samantha corrono nuovamente in albergo a coprire le gambe che avevano elegantemente ed eroicamente lasciato nude, mentre Giorgio con una serie dei suoi “Excuse me, sir” riesce a farci assegnare un tavolo appena più riparato e meglio riscaldato, dove posso addirittura togliere il piumino e restare in camicia.
Nonostante il programma prevedesse una cena a menù fisso, a quanto pare qualche schema è saltato e veniamo lasciati liberi di ordinare quello che ci pare. Per prima cosa, quindi, prendiamo una serie di cocktail e long drink con cui provvederemo a pasteggiare, in mancanza di vini e spumanti qualitativamente all’altezza. Per cui quando sento da una parte del tavolo “three margarita” resto convinto che si tratti del tradizionale cocktail messicano, solo più tardi quando vedrò recapitare tre dischi di pane condito con pomodoro a fette e qualcosa che dovrebbe assomigliare alla mozzarella, realizzerò che qualcuno ha veramente ordinato tre pizze in un locale da ballo l’ultimo dell’anno a Palm Springs. Io mi mantengo sul mio classico tex-mex e ordino tacos di gamberi e quesadillas da dividere con tutti, mentre a un certo punto appaiono tre immensi vassoi di nachos con salse e dip vari da cui tutti attingiamo voracemente, come se da IHOP avessimo solo guardato. E, nel dubbio, innaffiamo il tutto con un altro giro di gin tonic.

Cenone a base di nachos e gin tonic

D’altra parte il mood del locale è questo: il DJ sta già spingendo i bpm ben prima della mezzanotte, la clientela è variegata e abbastanza eccentrica e stravagante, in alcuni casi forse anche eccessivamente. Lungi da me qualunque tentativo di body-shaming, posso limitarmi a notare che la combo tra le silhouette non esattamente filiformi di gran parte delle presenti e i mini-abitini attillati da 40 centimetri quadrati lascia sicuramente poco spazio alla fantasia, ma probabilmente non genera i risultati attesi. Comunque sia, tra un drink e un ballo, a un certo punto dal nulla spunta un countdown e di colpo ci ritroviamo tutti ad abbracciarci, baciarci e augurarci buon anno. Niente brindisi: forse non usa? Andiamo avanti di gin tonic e pace così.

Qualche tempo dopo la mezzanotte, le ore di auto e la temperatura non elevatissima cominciano a presentare il conto: Giorgio, Giovanna, Marta e Melania fanno rientro in albergo, mentre lo zoccolo duro dei nottambuli tiene ancora botta. Io, Ben, Sam e Alina (che ha serate da recuperare) molliamo il The Village e ce ne andiamo in giro per Palm Springs a cercare altri locali dove proseguire quest’inizio di 2024. Alla fine, ci imbattiamo in una scritta karaoke che non può non attirare l’attenzione di Samantha e andiamo a controllare la situazione.
Il tasso alcolemico del locale si registra tranquillamente anche senza l’etilometro: bastano le performance al microfono e quelle sulla pista da ballo, qualche attacco di equilibrio instabile e alcune avance abbastanza sui generis da cui dobbiamo difendere Benedetta, che in versione intopata animalier attira uomini come i petroldollari sauditi attirano i calciatori. Un gruppo di ragazze si esibisce in Party In The U.S.A. di Miley Cyrus, che diventerà una sorta di manifesto della nostra vacanza, e Sam parte a scatenarsi sulle note non proprio perfette delle giovani californiane, lanciando il suo grido di battaglia “Le basiii!!!”. È infine Alina, dopo aver assistito all’ennesimo approccio scomposto a Ben, a far calare l’epitaffio sulla serata con un perentorio “Almeno in Europa abbiamo più dignità”.
Scivoliamo fuori dal locale e da lì, lungo un vicolo immerso in grida e canti di chi non si rassegna ad andare finalmente a letto, guadagniamo il parcheggio, la macchina e infine l’hotel. Prima di mettermi a letto non riesco a non pensare che ho iniziato il 2024 a Palm Springs, e come se non bastasse domani andrò nel deserto del Joshua Tree Park. Ma che figata!

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