Levanzo

di Anna Ferrari Scott

 

Levanzo, una manciata di chilometri quadrati di isola, un grumo di abitanti con la pelle cotta dal sole e le spalle larghe di chi, in quelle acque cristalline, ci nuota con la stessa naturalezza con la quale cammina senza difficoltà sulla roccia. “Levanzo è un’isola nata donna, perché è complicata come loro”. L’eco di queste parole, provenienti da un tempo lontano, mi ha accompagnato qua: un tempo in cui io ero ragazza e il padre di mio nonno mi parlava così della sua terra natia e dell’amore della sua vita, Jennifer. Se sono qua è anche per loro due.

Jennifer scese dal postale e le donne ricamarono sul fatto, con un codice tutto loro, fatto di sguardi, gesti, mezze parole più simili a grugni e pronunciate in dialetto stretto. Certamente la ragazza non passava inosservata, talmente pallida da sembrare eterea, carica di efelidi come una caricatura, lunga e magra come un fil di ferro, con insignificanti capelli castani abituati a un clima umido, muffito e rachitico. Doveva prendere sole, aria, e respirare iodio, per guarire. Gli uomini, invece, semplicemente si dissero che aveva bisogno di cure di altro genere.
In realtà, il suo male era definito dai luminari, all’epoca, il “mal di vivere”.
Jennifer aveva sempre freddo, quello stesso freddo umido, muffito e rachitico che aveva sempre abitato. E portava brutti pensieri con sé: i suoi polsi pieni di cicatrici dicevano cose che nessuno poteva riferire, e forse giustificavano quelle maniche sempre così lunghe. Non sapeva nuotare, non aveva mai camminato a piedi nudi, non aveva mai sciolto i capelli al sole. La sua pelle temeva l’aria fresca e luminosa.
Si innamorò del colore argenteo del pesce appena pescato, di quello dorato del pane appena cotto, e del verde profumato delle olive, del rosso sapido dei pomodori e del blu violaceo delle melanzane.
A dirla tutta, le erano sconosciute anche le tinte del genere umano e di questo si curò Salvatore, il mio bisnonno: fu lui a traghettarla in quel mondo semplice, fatto di luce e colori.

Quello che Jennifer subito intravide, destabilizzata dal dolce dondolio dell’imbarcazione, fu un paesello bianco, fatto di case piccole, squadrate e senza tetto, tutte abbarbicate l’una all’altra. E una roccia scura tutt’attorno, e altre rocce bianche, un mare azzurro più del cielo e fiori selvatici dalle tinte più bizzarre e intense.
Tutto quel colore, e tutta quella luce, così penetranti e insolenti, le fecero pensare di essere stata catapultata in un altro mondo.
I vicoli del paesello erano stretti, contorti, freschi. Camminarci attraverso fu qualcosa di strano, passare dal sole all’ombra, annusare l’aroma del pesce sventrato e messo sotto sale, tenere calcato il cappello sul capo perché l’aria, un’aria calda ‒ calda! ‒ che si infilava nei vicoli glielo avrebbe portato via.

Salvatore se la trovò davanti o meglio, gliela misero davanti.
Lui, ventenne, pieno di forza e vigore come il sole e il vento del Sud in piena estate.
Lei, quindicenne, sparuta come un feto ancora umido di aborto. I suoi occhi erano così grandi, e così impauriti e persi, che Salvatore provò inizialmente una gran pena nei suoi confronti.
«Te la affidiamo – gli dissero. – Siamo pagati per questo, noi e pure tu. Siamo pagati per farla dormire nella nostra camera, noi ci mettiamo per terra di là, e tu vai a dormire fuori, con l’asino. Dobbiamo farla mangiare, pomodori e melanzane e limoni, che il dottore disse che abbisogna di cose fresche della terra. E pane e olio e pesce. Che puoi portarne a casa di più, di pesce, se ti sforzi un poco. E poi dovrà stare all’aria aperta. Magari te la porti in barca quando esci a pescare?»
«Io…»
«No, aspetta, c’è dell’altro» gli dissero. Sei mascolo, sei promesso, tra sei mesi ti sposi. Come a dire, non toccarla, non farla toccare. Come a dire, non devi guardarla, non devono guardarla. Come a dire, devi proteggerla. «Non parla la nostra lingua, parla ‘nglesi, per farti capire non lo so.»
«Io…»
«È un tesoro, ci porta soldi, soldi veri. Vedi tu. E guai a te…»

Il mio bisnonno, quando parlava della loro storia, ne parlava senza inibizioni.
Un giorno, era piena estate, la fece mettere scalza, per l’ennesima volta, e le disse di seguirlo. Poi, visto che lei non aveva capito, glielo ripeté a gesti, e lei lo seguì, obbediente. Adorante. Dopo settimane che camminava sulla roccia nuda i suoi piedi, finalmente, si erano induriti, come se una scorza salvifica stesse iniziando a prendere forma.
La portò in una caletta, la fece restare in sottoveste, la prese in braccio e la buttò in mare.
Lei quasi annegò, prima di scoprire che qualcosa di misterioso, tiepido e salato, là sotto nell’acqua blu, la spingeva verso l’alto e la teneva a galla.
Fu quella volta, in acqua, che lui, guardandola, desiderò così tanto baciarla che gli vennero le lacrime agli occhi. E quando la aiutò a risalire, tendendole la mano, e i suoi occhi si fermarono sulle vesti bagnate e aderenti al corpo, di colpo si sentì completamente schiavo di quella specie di sirena.

«Pesce» le diceva, indicando le sarde.
«Pesce» rispondeva lei.
«Limone. Mare. Cielo. Pane. Pomodoro. Vino. Fiore. Mano.»
Così tutto il giorno, quella volta.
«Io, Salvo. Tu, Jennifer» disse, indicandosi, e poi indicandola.
«Io, Jennifer. Io Jennifer Levanzo.»
«No, tu Jennifer Brown. Io, Salvatore Levanzo» disse.
Poi, le prime parole in inglese che lui imparò. Chiss mi, Salvo.
Vedi tu. E guai a te…”: quelle parole gli rimbombavano nelle orecchie quando finalmente la baciò e quando, la notte successiva, se ne scapparono in una grotta, consumando un atto d’amore goffo, prematuro e impacciato, che macchiò di sangue le vesti di Jennifer e marchiò a sangue l’onore di Salvatore.
«Te l’avevamo affidata. Come è stato possibile?» gli chiesero i padri.
«L’amore successe» rispose lui, a testa alta, ma senza guardare nessuno di loro negli occhi.
«E l’amore ti terrai, ma via da quest’isola. Tu non sarai più figlio di questo mare e questa roccia. Andatevene.»

Oggi sono qua. Dalla motonave cerco di immaginare lo stesso villaggio che vide Jennifer quindicenne, tanti anni fa. Indosso come una veste questa storia, di cui governo solo quei dettagli frastornati e disordinati che il mio bisnonno, sbiascicando, ha voluto affidarmi.
È come un ritorno a casa, giuro che lo sto vivendo così. Per questo, appena sarò scesa, la prima cosa che farò sarà togliermi i sandali e camminare scalza.
Mi chiamo Jenny di nome.
Di cognome faccio Levanzo, come quest’isola dai colori magici.
E so di essere figlia di questo mare e di questa roccia.

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