Timing

di Mattia Bragadini

L’Opel Corsa percorse con cautela l’ultima rotatoria e poi accostò delicatamente accanto al marciapiede davanti al cancello della casa di Alessandra. La stessa cautela con cui Massimo aveva guidato lungo tutto il tragitto dal locale fino lì: il tasso alcolico nelle sue vene era quello di un venerdì sera passato cercando di sciogliere i nervi e la lingua, preparando questo momento sotto casa di lei, e l’ultima cosa che voleva fare era insospettire vigili o carabinieri con una guida troppo spregiudicata.
Avevano passato una serata divertente con altri amici: lo spritz all’aperitivo, la pizza, un paio di birre, il caffè e il limoncino. Poi a ballare in compagnia, un Long Island dietro a un mojito, una caipiroska dietro a un vodka lemon e dopo mezzanotte una serie di brindisi, perché dopo mezzanotte venerdì era diventato sabato, e sabato era il compleanno di Alessandra.
Era già da un pezzo che quando uscivano con gli amici, Massimo si preoccupava di passare a prendere Alessandra a casa, la scusa era quella di lasciarla libera di bere senza il pensiero di doversi poi mettere alla guida. Ma la verità era che amava dannatamente quei momenti passati da soli, prima e dopo la serata, in cui si trovava molto più a suo agio che in mezzo a tutto il gruppo: per Massimo in tre era già una folla e non era il tipo da sgomitare o alzare la voce per mettersi al centro dell’attenzione. Era nell’uno contro uno che dava il meglio di sé, e sperava di trovare prima o poi le parole per dire ad Alessandra quello che gli bolliva dentro ormai da qualche mese.
Negli ultimi tempi, infatti, quella vaga simpatia che da sempre provava per Alessandra si era fatta via via più ingombrante e aveva raggiunto l’apice nel momento in cui lei aveva rotto col suo fidanzato storico; da lì in poi c’era stato qualche caffè insieme, solo loro due, e qualche invito un po’ più pressante, una pizza o un cinema, addirittura la proposta di una lezione di tennis pur di passare un’oretta con lei, che Alessandra aveva sempre rifiutato gentilmente, lasciando Massimo in quella terra di nessuno di incertezza, nella quale non riusciva a capire fino a che punto lei giocasse un po’ a farsi desiderare, come fanno le donne belle e interessanti che sanno di esserlo e si gustano ogni attimo del corteggiamento, o se molto più semplicemente la presenza o meno di Massimo nel mondo fosse l’ultima delle sue preoccupazioni. Era il momento di scoprirlo, o per lo meno di fare un passo deciso in quella direzione.
Massimo spense il motore, come per far capire ad Alessandra che non aveva intenzione di andarsene così presto, lei si voltò guardandolo un po’ storta, forse più per la testa ancora sottoposta alle martellate della vodka che per la sorpresa: d’altra parte questo uomo d’altri tempi che era Massimo non era nuovo ad accompagnarla fino alla porta di casa, per difenderla da eventuali pericoli e insidie nascoste nei quindici metri del vialetto. Ma Massimo questa volta non accennava a scendere: con le mani rese incerte dall’alcool si allungò ad aprire il vano portaoggetti e ne estrasse una busta.
«Per te. Buon compleanno, Ale!» disse con un sorriso.
«E questo? Ma tu sei completamente impazzito!» rispose, con gli occhi che però le brillavano.
«Apri la busta.»
Alessandra obbedì e dalla busta uscì un biglietto di tribuna centrale per il concerto dei Placebo a San Siro: «Non ci posso credere! Ma dove… ma come l’hai trovato?»
Massimo ignorò la domanda ma si limitò ad aggiungere arrossendo leggermente «Io ovviamente ho il posto accanto…», per poi correggersi immediatamente «Ma se preferisci andarci con qualcun altro…»
«Che scemo sei! Certo che ci vado con te!» poi gli buttò le braccia al collo e gli stampò un gran bacio sulla guancia. «Grazie! Non dovevi, davvero… ma grazie!»
Alessandra cominciò poi a guardarsi intorno e a cercare qualcosa in più da dire, come per lasciare intendere che nemmeno lei aveva ancora voglia di andare a dormire. Alla fine prese in mano un paio di compact disc tra quelli che Massimo teneva sparsi nel vano vicino al cambio e tanto per dire qualcosa se ne uscì con «Quanti CD hai!»
«E vedessi quanti ne ho a casa!» rispose mentre in realtà pensava “Dovrei baciarla”.
Doveva baciarla, poteva baciarla, voleva baciarla. Ma non lo fece. Pensava che era il suo compleanno, pensava che erano tutti e due troppo ubriachi, pensava che il giorno dopo le sarebbero arrivati a casa i fiori che aveva già ordinato, che li avrebbe ricevuti poco prima di partire per il mare dove avrebbe passato la Pasqua a casa dei nonni; pensava che quello sarebbe stato il colpo di grazia; pensava che la sua pazienza e la sua tenacia che lo avevano portato fino lì dovessero fare un piccolo, ulteriore, definitivo sforzo per completare il percorso. E poi, trovando d’improvviso la verità nell’alcool come insegnavano già gli antichi romani, pensò che erano tutte tante belle stronzate inventate per mascherare la sua timidezza, la sua insicurezza, la sua paura di un rifiuto. Così, accompagnato da questa nuova, inattesa consapevolezza che gli scorreva placida nelle arterie insieme ai tanti, troppi gin tonic, scese dalla macchina, la accompagnò fino al portone e la salutò con un bacio più tenero del solito, che però ancora una volta si spense ben lontano dalle labbra di Alessandra. Rimase a guardarla chiudersi la porta alle spalle mentre gli regalava un ultimo dolcissimo cenno della mano e un sorriso che prometteva una buona notte e tantissimi meravigliosi giorni, poi risalì in macchina e mentre guidava verso casa la radio passò Without You I’m Nothing. Se questo non era un segno del destino, pensò, il destino allora non esisteva.

Quella notte, tuttavia, non fu facile. Non lo era mai: nessuna notte dopo una serata con lei scivolava via tranquilla in serene sequenze oniriche, trascorreva piuttosto tra le continue scariche dell’adrenalina accumulata nel maldestro tentativo di piacerle un po’ di più, e tra interminabili monologhi interiori che partivano da un’analisi maniacale di ogni singola parola e di ogni singolo gesto per trovare indizi che lo portassero nella direzione desiderata. Sterili esercizi di wishful thinking basati su un casuale “Dai, ci sentiamo presto” che dopo una generosa dose di filtri e sovrastrutture diventava un improbabile “Dove facciamo il banchetto di nozze?”. Elucubrazioni senza senso e senza meta, e soprattutto senza alcun risultato se non quello di mandargli completamente il cervello fuori uso.
E quella notte fu anche peggio, se possibile. Aggravate le masturbazioni cerebrali da una sterminata serie di contraddittorie considerazioni intorno al dilemma irrisolto e irrisolvibile se avrebbe dovuto baciarla oppure no; triplicata l’adrenalina in corpo dall’imminente consegna delle rose rosse che, a suo parere, avrebbe gettato finalmente un fascio di chiarezza su quella oscura giungla di sguardi e sentimenti nella quale non si sarebbe districato nemmeno con un machete. Si svegliò, o per meglio dire, decise di smettere di provare a dormire e si infilò sotto la doccia, restando più a lungo del solito sotto il getto caldo che gli massaggiava il collo, cercando di rilassarsi e di rimettere in moto il corso naturale dei suoi neuroni che al momento giravano in tondo accartocciandosi intorno a un unico concetto: Alessandra.
Si lavò i denti con cura, scacciando a energici colpi di spazzolino il sapore pastoso e appiccicaticcio dell’alcool della sera prima, andò in cucina a prepararsi un caffè ancora in accappatoio e per sua sventura fatalmente ricominciò a pensare. E pensò che ora non restava che aspettare, aspettare un segnale da Alessandra, una telefonata, un sms, un Tweet, un post su Facebook, un messaggio su WhatsApp, una mail, un cazzo di telegramma! Aspettare. Aspettare la consegna, lo stupore, la reazione, l’elaborazione di una risposta, l’invio di tale risposta. Mediata, non istintiva, calcolata, meditata, pesata. E quindi da leggere o ascoltare con la massima attenzione, pause e spazi compresi.
Solo che la risposta tardava ad arrivare, e i minuti passavano lenti ma inesorabili, a decine, fino a diventare ore. E alle undici in punto lo stato emotivo di Massimo, che nel frattempo era sceso al bar sotto casa a mangiare un paio di brioche più per assorbire le caipiroske in eccesso della sera prima che per un reale appetito, si era ormai tramutato da un’agitazione mista ad apprensione a una preoccupazione non priva di un accenno di terrore. Trovò un minimo di pace valutando l’ipotesi che Alessandra fosse partita prima del previsto, nonostante l’inevitabile hangover, e il fiorista avesse trovato la casa già vuota; resistette alla tentazione di chiamare in negozio per averne conferma, preferendo crogiolarsi in questo dubbio piuttosto che rischiare di scoprire che le rose erano state effettivamente consegnate, ma Alessandra non aveva ancora deciso di farsi sentire.
D’altra parte Massimo aveva dato al fiorista il numero di cellulare di Alessandra per poterla contattare in caso di irreperibilità, forse era già comunque informata del fatto che c’era un mazzo di fiori per lei che l’attendeva e magari non avrebbe nemmeno faticato a indovinare chi glieli mandasse prima ancora di leggere il biglietto, ma di sicuro non poteva certo ringraziarlo senza la certezza che il mittente fosse veramente Massimo. O molto più semplicemente li aveva ricevuti, ma il gesto l’aveva messa a disagio e stava cercando le parole giuste per mettere un freno alle ambizioni di Massimo senza tuttavia ferirlo. O ancora, il fiorista l’aveva trovata giusto sulla soglia di casa mentre si preparava a partire e adesso stava guidando verso Viareggio e lo avrebbe chiamato solo una volta arrivata.
Perso in questo corto circuito di sinapsi che gli stavano riattivando la sbornia della sera prima, quasi non si accorse che, posato tra la tazza ormai vuota del cappuccino e il piattino con i resti di due croissant alla crema, il suo telefono aveva iniziato a vibrare. Sul display era apparsa la fotografia di una bella ragazza sorridente, bionda e con gli occhi scuri, e il nome sopra la foto recitava semplicemente “Ale”. Con lo stato d’animo di un condannato a morte davanti al plotone d’esecuzione, fece scorrere l’indice sul display e si preparò al suo personalissimo giorno del giudizio.
Eppure, in quei pochi secondi tra la decisione di muovere il dito e l’effettiva attivazione del relativo impulso elettrico attraverso il sistema nervoso centrale, Massimo trovò comunque il tempo e il modo di rimpiangere i tempi dell’era pre-cellulare quando a una chiamata si rispondeva semplicemente “Pronto?”, qualcuno al massimo azzardava un anticonformista “Sì?”, non avendo la minima idea di chi si trovasse dall’altra parte del filo, già perché all’epoca c’era anche un filo. Ora invece nel corso di tutti i suoi sceneggiati mentali delle ultime ore si era totalmente dimenticato di scegliere come rispondere a un’eventuale telefonata. Un gioioso “Ehilà!”, un colloquiale “Ciao Ale!”, o appunto un immortale e distaccato “Pronto?” come se stesse rispondendo distrattamente senza nemmeno guardare lo schermo? E perché non attaccare canticchiando direttamente un “Tanti auguri a te”? O una frase spavalda e consapevole del tipo “Tutto a posto, baby?”. Magari no, decise Massimo.
Fortuna volle che nessun tipo di risposta gli fu richiesta, in quanto non appena ebbe sentito l’attacco della conversazione, fu Alessandra a parlare per prima:
«No, vabbè…!»
Ora, “No, vabbè…!” non era esattamente la frase che Massimo immaginava di sentirsi dire come prima cosa. Ma l’intonazione allegra e le implicazioni intrinseche dell’espressione lo fecero sorridere, consapevole che le cose stavano in qualche modo prendendo il corso che desiderava.
«Ehi Ale!» Alla fine, in ogni caso aveva dovuto cedere a una forma di saluto.
Poi però Alessandra era ripartita a mitraglia:
«Ma tu sei matto! Ma non ti bastava il biglietto? Comunque sono meravigliosi! Non ho mai ricevuto fiori così belli in vita mia!»
«Beh, evidentemente finora hai frequentato persone di pessimo gusto.»
Alessandra rise con sincero divertimento, e a Massimo parve di essere in stato di levitazione e si sentì galleggiare sulla sedia. Battutona, Max! Bravo, avanti così!
«No davvero! Sei stato supercarino, e non me l’aspettavo veramente!»
«Dai, sono contento che ti siano piaciuti.»
«E anche il biglietto… parole splendide, come sempre da te, d’altra parte.»
Già, il biglietto. Massimo aveva soppesato la frase di accompagnamento parola per parola, nel tentativo, a quanto sembrava perfettamente riuscito, di dire e non dire, di aggiungere un altro piccolo quindici alla costruzione del suo game, e poi del suo set, e poi del suo match, senza però sbilanciarsi troppo. Fare un altro passo verso di lei, tenendo sempre a portata di mano una comoda e visibile via di fuga. Rischio calcolato, aveva pensato.
«Grazie, Ale. Sei gentile.»
«Tu sei gentile! E comunque, dai… ne riparliamo presto. Ora ti lascio che cominciano le gallerie.»
«Dove sei?»
«Partita da poco. Ma sono quasi al valico.»
«Bene bene, buon viaggio e buon weekend allora! E ancora buon compleanno… e buona Pasqua. Insomma… buon tutto!»
«Ahahahah! Ok, grazie, anche a te!»
«E… Ale!»
«Dimmi.»
«Ci sei lunedì da Marco?»
«Sì sì, torno già domani sera. A Pasquetta ci sarò.»
«Ah… ok… bene… ci sentiamo allora.»
«Certo! A presto, Massimo. Bacio!»
«Bacio, Ale.»
Terminata la comunicazione, Massimo rimase a fissare per qualche secondo il display del telefono dove l’immagine di Alessandra stava lentamente sfumando al nero, poi alzò lo sguardo davanti a sé dove lo specchio dietro al bancone del bar gli rimandava il suo sguardo inebetito. Si passò leggermente la lingua sulle labbra, come se potesse sentire il sapore di quel bacio virtuale, e finalmente iniziò a rilassarsi, anche se in qualche angolo remoto della sua testa un tarlo cominciava già a rodere la sua corteccia cerebrale, chiedendogli impietosamente di cominciare subito a organizzare la giornata di lunedì.
Tuttavia Massimo riuscì nell’impresa di ignorare il tarlo per tutte le restanti ore del sabato: decise che avrebbe scritto un messaggio ad Alessandra solo la domenica sera, proponendole come al solito di passarla a prendere per andare insieme alla grigliata a casa di Marco, magari approfittando del giorno di festa per concedersi una colazione tra di loro. Resistette addirittura alla tentazione di guardare se c’erano suoi post su Facebook o su Instagram e di postare qualcosa a sua volta in attesa di un suo like, scegliendo invece di godersi le belle sensazioni che stava provando e rimandando ogni passo ulteriore a quando si sarebbero rivisti. Dopo un pranzo freddo, leggero e svogliato a base di mozzarella e prosciutto crudo, nel pomeriggio approfittò della bella e assolata giornata di inizio primavera per fare un po’ di jogging, una decina di chilometri nel parco per sciogliere un po’ muscoli e tensione. Alla sera ignorò l’invito a cena di sua mamma, fece arrivare una pizza a domicilio e decise di andare, una volta nella vita, alla veglia pasquale nel vicino santuario. Non tanto per un’improvvisa folgorazione mistica, ma più che altro per il bisogno di condividere gli ultimi sviluppi dell’affaire-Alessandra con una delle poche persone che ne era, almeno ufficialmente, al corrente. E Luca, oltre che instancabile promotore di iniziative spirituali e religiose, era anche il suo migliore amico e come tale l’unica persona di sesso maschile con cui poteva parlare della sua storia d’amore tutta da scrivere. Che poi in realtà della sua cotta fosse consapevole l’intera compagnia, e forse buona parte dell’intera città, al momento gli importava il giusto.

La domenica di Pasqua, anche per un’immedesimazione con le celebrazioni del triduo pasquale, fu invece per Massimo una specie di calvario. La birra post-veglia con Luca non aveva generato sostanziali passi in avanti nell’esplorazione e nell’analisi della situazione con Alessandra: l’amico aveva reagito al racconto degli ultimi sviluppi annuendo solennemente la testa con vigoroso trasporto, ma i commenti si erano limitati a monosillabi e a frasi di dubbia utilità tipo “Se son rose fioriranno”, “Chi vivrà vedrà”, “Siamo nelle mani del Signore” e altri motti di grande originalità che avevano avuto come unico risultato quello di mandare in tilt il sistema nervoso di Massimo, che in un paio di occasioni era dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non mettergli le mani addosso. Se non altro, tra la corsa del pomeriggio, le birre e l’ora tarda, alla fine era crollato sul letto sfinito e aveva finalmente dormito nove ore filate, come non gli capitava da tempo.
Così la mattina di domenica si alzò intontito dalla lunga dormita ma con i muscoli e l’animo rinvigoriti, e così dopo la doccia si sottopose di buon grado alla consueta procedura pasquale: la Messa con i genitori, i nonni, gli zii e i cugini, il relativo pranzo per ventiquattro persone nella solita sopravvalutata trattoria, che ormai gli dava la nausea solo a sentirla nominare, col solito ritrito menù pasquale che prevedeva un palese sbilanciamento dei piatti a favore della voce quantità e a discapito della voce qualità. Il risultato finale fu un mix letale di acidità di stomaco, pesantezza e sonnolenza che lo fece praticamente collassare su una sedia di vimini della casa di campagna, dove la tribù si era trasferita nell’improbabile tentativo di risolvere la grave situazione gastroenterica a colpi di limoncino e altri presunti digestivi.
Poi, finalmente a casa e libero da genitori e parenti, Massimo si preparò un tè caldo e iniziò a pensare a cosa scrivere ad Alessandra per riprendere il filo del suo timido ma ormai deciso approccio e trovare un’idea per restare un po’ solo con lei l’indomani, nel tentativo di indagare con discrezione il suo stato d’animo post-omaggio floreale. Come al solito, cominciò a comporre il messaggio nell’applicazione note, limando parole, virgole ed emoticons, prima di fare il consueto copia-incolla su WhatsApp. Non soddisfatto, abbandonò la composizione del testo e tornò in cucina a versarsi un altro po’ di tè, a cui questa volta però aggiunse un’abbondante manciata di biscotti, a segnalare che gli effetti del banchetto pasquale si erano ormai affievoliti nel suo stomaco. Quando tornò sul divano l’icona di WhatsApp era impreziosita da un tondino rosso con il numero 1 al centro. Alessandra.

Appena rientrata a casa, c’è un buonissimo profumo di fiori! 🙂
Ahahah! Grande! Com’è andata al mare? Tutto bene?
Sì sì dai… nonni con qualche acciacchino… puoi immaginare… ma siamo stati bene, c’erano zii, cugini eccetera… ho mangiato da star male! aiuto!!!
Ah beh…. io uguale. Pranzo con genitori, parenti, ecc… ho mangiato l’impossibile e bevuto il doppio! 😀
Ah bravo… ;-P
Stasera tè caldo e biscotti. 😉   Te che fai stasera?
Nulla. Divano e tv.   🙂
Domani poi? Andiamo insieme?
Eh… ma ti disturbi sempre…
Ma va! Figurati! Anzi, ti lascio dormire finché vuoi… ma poi prima di andare da Marco ti porto a fare colazione… ti va?   🙂
Uhm… mi stai tentando… 😉
Dai che ti porto da Dolci Delizie 🙂
Apperò! 🙂  Ok dai… anche perché non ricordo dove abita Marco….
Eh già… il tuo famoso senso dell’orientamento… 😉
;P
A che ora allora?
Dimmi tu
Vuoi dormire un po’?
No tranquillo…. tra mezzora vado a nanna
Passo alle 10?
Andata!
Perfetto!
Grazie ancora… di tutto…. a domani allora!  🙂
E di cosa? Grazie a te! a domani! 🙂
notte Max! :-*
Notte Ale! :-*

Il mattino di Pasquetta Massimo si svegliò sorprendentemente risposato, calmo e rilassato. La reazione di Alessandra, che giudicava positiva oltre le sue più ottimistiche aspettative, la chat della sera prima, la tensione affettiva che sentiva fortificarsi tra di loro gli dava un’insperata tranquillità e quella fiducia in sé stesso che non aveva mai pensato di possedere. Non una piega quando parcheggiò l’Opel Corsa al solito posto davanti al cancello di Alessandra, non un brivido quando lei lo invitò a salire un attimo per fargli vedere la casa, nonostante non avesse mai messo piede a casa sua prima di allora, non un battito di ciglia quando lei gli sorrise di gioia e gratitudine mostrandogli le rose che lui ancora non aveva visto di persona. Fu una visita breve ed evidentemente platonica, l’allegria di Alessandra era contagiosa e contribuiva a metterlo a suo agio e a immaginare una giornata meravigliosa, non solo per il sole già caldo di fine aprile che splendeva come se dovesse impartire loro la sua benedizione.
«Beh, complimenti Ale! È veramente bellissima.»
«Eh grazie… è piccola ma è la mia prima casa e l’ho voluta sistemare come piaceva a me e ne sono molto soddisfatta.»
Alessandra sorrise di un pudico orgoglio e a Massimo parve più splendida che mai.
«E te la paghi tutta da sola?»
«Cosa vuoi… un piccolo mutuo trentennale. Se tutto va bene lo estinguo lo stesso giorno in cui andrò in pensione.»
«Ahahahah! Insomma, festa doppia!»
«Già. Beh, a proposito di feste, non trovi che sia ora di andare a fare un brindisi?»
«Si va da Dolci Delizie?»
«Una promessa è una promessa, no?»
«Claro que sì!»
La solita Opel Corsa si diresse quindi verso il bar pasticceria più in del centro, che trovarono fortunatamente aperto nonostante il giorno di festa, con grande sollievo di Massimo che si era totalmente dimenticato di verificare questa circostanza. Trovarono facilmente un parcheggio nella città semideserta, mentre la playlist dell’auto trasmetteva Slave To The Wage a tutto volume, e poi adocchiarono un tavolo all’aperto ma all’ombra, visto che il sole cominciava già a farsi sentire; l’appuntamento era per colazione ma ormai erano già le dieci e mezzo, così dopo i cappuccini e le leggendarie brioche alla crema di Dolci Delizie, man mano che si avvicinava mezzogiorno si fecero largo anche gli spritz e i prosecchi, anche per avere una buona scusa per avventarsi sugli altrettanto leggendari salatini di Dolci Delizie. Nulla di strano che alle 11.45 sia Massimo sia Alessandra fossero già leggermente ubriachi; entrambi sembravano sul punto di dirsi qualcosa ma mentre uno non trovava il coraggio, o le parole, l’altra decisamente sì.
«Ma quindi, il biglietto del concerto, le rose rosse, i messaggi, le parole, i passaggi, la colazione… vuoi forse dirmi qualcosa?»
A Massimo parve distintamente di percepire il suo sangue che fluiva abbondantemente verso il suo viso, sulla spinta dell’accelerazione delle sue pulsazioni, e si guardò in giro, come se la risposta giusta fosse scritta da qualche parte sul tendone sponsorizzato Coca Cola.
«Beh Ale, credo che tu abbia ormai capito che mi piaci…»
«Mhm sì, diciamo che avevo questo sospetto.»
Alessandra accompagnò le sue parole con un sorriso divertito nell’intento di mettere Massimo a suo agio, lui lo interpretò correttamente e valutò il suo atteggiamento come quello di una ragazza che non stava cercando di difendersi né di attaccarlo, una ragazza che gli stava semplicemente indicando una strada. E saggiamente decise di percorrerla.
«Sì sai, non sono molto bravo a mascherare i miei sentimenti. Ma non volevo nemmeno metterti fretta, so quello che è successo con Stefano e probabilmente adesso non hai voglia di pensare ad altri uomini, magari hai voglia di stare un po’ da sola, o magari di divertirti, o… non lo so. Non abbiamo mai affrontato l’argomento, non so come ti senti adesso rispetto al tuo ex.»
«Lo apprezzo molto, davvero. Intendo, apprezzo molto il rispetto che dimostri verso di me; apprezzo molto la tua pazienza, la tua discrezione e il tuo modo di… corteggiarmi? Posso dire così?»
«Sì sì, puoi dire così!» sorrise Massimo sciogliendosi un po’.
«E in effetti hai colto nel segno: anche tu mi piaci, ti trovo una bella persona, educata, gentile, hai modi di altri tempi e ti assicuro che nonostante quello che dicono in giro, o quello che combinano le ragazzine aggressive di oggi, a una donna piace sempre ricevere attenzioni, sentirsi desiderata, corteggiata appunto. Ma adesso la ferita è ancora troppo fresca perché io possa buttarmi in un’altra relazione, e io ovviamente non posso obbligarti ad aspettare oltre: è chiaro che se vuoi cercarti un’altra persona sei liberissimo di farlo. Però mi farebbe molto piacere invece continuare a frequentarti e vedere se un pezzettino di questo percorso lo possiamo fare insieme.»
Alessandra sorrise di nuovo e Massimo, che avrebbe fatto insieme a lei anche il percorso della Transiberiana a piedi, si sentì mancare la sedia da sotto le sue parti meno nobili: certo non era un sì, e d’altra parte non le aveva nemmeno ancora chiesto nulla, ma era una proposta seria accompagnata da qualche frase inattesa e inaspettatamente diretta che continuava a risuonargli nella testa, a cominciare da quell’anche tu mi piaci che non si prestava a grandi fraintendimenti. E come spesso gli capitava in queste circostanze, fece un po’ fatica a trovare le parole giuste.
«Ale, non ho nessuna intenzione di cercarmi un’altra persona. Sto bene con te e voglio fare con te questo percorso. Io ti aspetto, con i tuoi tempi e i tuoi modi.»
Massimo sorrise, tutto sommato felice della frase che gli era uscita, anche se restava convinto che con un po’ più di tempo per pensarci avrebbe sicuramente trovato qualcosa di meglio.
«Che carino che sei! Allora siamo intesi: amici fino a nuovi sviluppi.»
Alessandra gli tese la mano e lui, ancora inebetito dal modo in cui lei aveva pronunciato le parole nuovi sviluppi gliela strinse mentre avvampava di gioia e di rossore.
«Ora però forse è meglio che andiamo, che dici?»
Massimo guardò l’orologio che segnava ormai l’una: «Oh, cazzo!»

Massimo trascorse il resto del pomeriggio in uno stato catatonico, osservando con distacco gli altri che si stavano dedicando a una partita di green volley nel parchetto vicino alla casa di Marco, dove si erano trasferiti dopo la grigliata. Aveva rinunciato a contattare immediatamente Alessandra, ma estraeva il cellulare ogni cinque minuti per verificare l’eventuale presenza di sue comunicazioni, e lo riponeva deluso con la stessa cadenza, incredulo di come il tempo non passasse mai, mentre lui ormai non aspettava altro che un orario decente per andare a casa senza dare troppo nell’occhio. Finalmente, verso le cinque di pomeriggio, i primi gruppetti cominciarono l’infinito rito dei saluti (“Ma come, andate già?”, “Eh domani c’è il lavoro…”) e si aggregò al primo scaglione diretto verso le macchine, ostentando un’allegria posticcia che aumentò invece che diminuire i sospetti della compagnia, che aveva assistito senza commenti ma con molta attenzione alla scena di qualche ora prima.
Giunto finalmente a casa, Massimo rimase una buona mezzora a fissare il display del telefono, in attesa di un’ispirazione: le telefono? Le scrivo? E se le scrivo con che tono le scrivo? E se le telefono cosa le dico? Non era usuale telefonarsi tra di loro, giusto le indicazioni di base quando nonostante gli appuntamenti fissati non riuscivano a trovarsi: “Dove sei?”, “Qua davanti alla farmacia!”, “Ma quale farmacia?” “Come quale? Una ce n’è!”, “Ma sei in piazza Garibaldi?” “Ma no! Si era detto piazza Cavour!” “Ah, scusa arrivo!”
Una vera telefonata in stile anni novanta non c’era mai stata. Alla fine le scrisse, senza filtro, senza nessun copia-incolla, senza misurare né le virgole né le faccine.

Ale, non ho capito bene cosa è successo prima…
Lo so, Max… scusami tanto… ma è tutto un gran casino
Cioè?
Ma niente…
Come niente? Ricevi un messaggio e scappi via con Sonia, non mi spieghi nulla, saluti appena… è successo qualcosa? Qualcuno non sta bene?
Ma no no…. era Stefano
Stefano?

E…?
E… niente… dice che non riesce a vedere nessun’altra donna al suo fianco a parte me
E tu gli credi?
Cosa devo fare, Max? Dai… non ti ci mettere anche tu!
No no, non “mi ci metto”. Figurati
Sai quello che voglio dire… questo non cambia niente di quello che ti ho detto stamattina
Io veramente faccio fatica a vedere come siano compatibili…
Invece lo sono… anche questo fa parte del mio percorso
Se lo dici tu…
Sì, lo dico io… dopo tutti questi anni non posso non concedergli un’altra chance, avrei troppi rimorsi se non lo facessi
Come vuoi
Credimi Max… qualunque cosa accada in futuro, incluso quello che potrà capitare tra noi, è meglio se mi tolgo ogni dubbio
Va bene, Ale, ho capito
Ma a maggior ragione tu sei liberissimo di farti la tua vita e non aspettare me
Certo, ci penserò
Max… ti prego, mi sento già una merda senza che ci aggiungi il carico da 11!
Se ti senti una merda evidentemente non sei così convinta della tua decisione
Forse mi sento una merda perché ti voglio bene e ci tengo a te. E mi rendo conto che ti sto facendo soffrire
Va bene, Ale… questa conversazione non va da nessuna parte, comunque… ne riparleremo con calma
Promesso?
Promesso
Sei sereno?
Per quanto possibile…
Non ti voglio perdere, Max… ma so che non posso obbligarti a starmi accanto in questo modo. Voglio solo che tu sappia quanto sei importante per me, poi prendi le tue decisioni
Non ti preoccupare, Ale… non mi perderai   🙂

E Dio solo sa quanto gli costò quella faccina.

* * * * * * * *

Alessandra, seduta per l’ultima volta davanti allo specchio grande della sua cameretta da ragazza, aprì la cassettina in cui conservava la bigiotteria e i suoi piccoli gioielli e ne estrasse la pietra di lapislazzulo comprata in Cile durante il suo viaggio post-laurea in Sudamerica. Intanto ripassava mentalmente gli oggetti della filastrocca: al collo la sua vecchia catenina d’oro con il crocifisso della Prima Comunione e ovviamente il suo nuovissimo abito bianco, poi tra i capelli la spilla a forma di rosa prestàtale dalla sua migliore amica Sonia e, appunto, il lapislazzulo azzurro. C’era tutto: Something Old, Something New, Something Borrowed, Something Blue. E non poté fare a meno di concludere sorridendo: every me and every you.
Con una punta di malizia, muovendosi come se fosse osservata, Alessandra infilò la piccola pietra nelle mutandine di pizzo bianco, bloccata tra l’elastico e l’osso del bacino e chiamò sua sorella e sua madre per farsi aiutare a indossare il vestito e per ritoccare trucco e capelli. Mentre aspettava, prese tra le mani la foto incorniciata che Massimo le aveva regalato qualche compleanno prima, ritraeva loro due distesi sulla neve che ridevano come due bambini e l’avevano scattata in Val Gardena durante una delle ultime settimane bianche con gli amici. Alessandra la guardò con un sorriso commosso, si ricordava bene di quella vacanza, delle mattinate passate col culo sulla neve con buon pace del maestro di sci, dei pomeriggi passati in baita ad ammazzarsi di strudel e bombardini, delle serate passate in appartamento a dare vita a sanguinose sfide a Taboo, rigorosamente maschi contro femmine. Erano giovani, felici e spensierati e forse era stata la più bella vacanza della sua vita, anche grazie a Massimo.

Massimo accese il climatizzatore a 18 gradi a fronte di una temperatura esterna di 37; era l’unico modo per riuscire a indossare la camicia senza riempire il candido lino di una serie di cartine geografiche di sudore. Se c’era una cosa che odiava erano i matrimoni a luglio, ma purtroppo per lui Alessandra aveva deciso così: lei amava il caldo e per sua fortuna non aveva gli stessi problemi di sudorazione abbondante che tormentavano Massimo. Si mise direttamente con il collo sotto allo split del soggiorno per le operazioni più complicate: l’allacciatura dell’ultimo bottone della camicia e la conseguente esecuzione del famigerato doppio Windsor alla cravatta che, prima di riuscire, richiese tre tentativi vani, una discreta sequenza di discutibili invocazioni al Signore e l’indispensabile ausilio di un tutorial su You Tube. Con l’aiuto di suo fratello, giunto ad assisterlo alla vestizione, la chiusura dei gemelli da polso fu invece più semplice del previsto, così come la pratica pantaloni e scarpe. Massimo si fermò un’ultima volta davanti allo specchio della sala, controllando i capelli, la barba di quattro giorni che anche quel giorno aveva voluto conservare, e le sue profonde occhiaie, risultato dell’ennesima notte insonne in preda a ricordi e pensieri. Fece una strana faccia alla sua immagine riflessa, a metà tra un sorriso e una smorfia, recuperò dal comodino l’astuccio con le fedi e si avviò verso la macchina, la giacca sulla spalla, ben deciso a non indossarla fino all’ultimo minuto utile.

Dopo aver ascoltato paziente le discussioni tra sua madre e sua sorella sul corretto posizionamento della ciocca di capelli lasciata strategicamente sciolta, dopo essersi arresa alla scelta delle consanguinee in merito alla giusta tonalità del mascara e alla sfumatura dell’ombretto e dopo essersi docilmente sottoposta al crudele rito della chiusura del corsetto, Alessandra chiese alla famiglia di uscire, gentilmente, dalla stanza e si trovò finalmente di nuovo sola, davanti a quella meravigliosa sposa vestita di bianco che le restituiva lo specchio. Mentre le mani, come guidate da una volontà autonoma, continuavano a lisciare il velo dietro alla sua nuca, la mente partì alla caccia di tutti i ricordi che avevano contribuito a fare di lei quell’immagine riflessa nello specchio. Di colpo aprì il secondo cassetto e prese la grande carpetta dove conservava tutti i biglietti di spettacoli, partite e concerti ed estrasse il tagliando del concerto dei Placebo a San Siro il giugno precedente; continuando a tenerlo in mano accese i diffusori collegati al suo cellulare e selezionò la playlist dei Placebo in modalità random, partì Song To Say Goodbye ed Alessandra si immerse nei ricordi e nelle emozioni di quella sera, un’altra giornata da incorniciare passata con Massimo, prima a fare shopping per le vie del Quadrilatero della Moda e poi i brividi di Brian Molko e della sua band, nelle luci spettacolari e nella folla urlante del Meazza. Rimase a fissare il biglietto per qualche secondo, si asciugò una lacrima e fu pronta per andare.

Massimo parcheggiò la Opel Corsa a cinquecento metri dalla chiesa e si incamminò da solo con i suoi pensieri, come a gustarsi gli ultimi istanti di quella che da lì a qualche minuto sarebbe diventata la sua vita precedente. Non aveva voluto nessuno accanto a sé per quei momenti: camminava e rivedeva dentro la sua testa il film dell’ultimo anno, stringeva le fedi nella tasca destra della giacca e ad ogni passo che lo avvicinava al sagrato sentiva il cuore accelerare. Accelerò poi anche il suo passo, notando che si stava facendo tardi e che Alessandra sarebbe arrivata in chiesa tra meno di cinque minuti: sarebbe stato opportuno farsi trovare al suo posto. Una volta arrivato, salì senza esitazioni i quattro gradini che lo separavano dal portone e attraversò la navata centrale, percependo con chiarezza gli sguardi di tutti i presenti posarsi sulla sua nuca, poi si diresse lentamente verso l’altare e buttò un occhio agli eleganti scranni di seta bianca davanti al sorriso pacifico di Don Simone.
Si diresse verso lo scranno di destra e, con un gesto che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere solenne, consegnò le fedi allo sposo, che attendeva impaziente l’ingresso di Alessandra nella chiesa. Notando i parenti della sposa schierati in prima fila, fece loro un vago cenno con la mano e raggiunse infine il banco dei testimoni, proprio nel momento in cui l’organista attaccava il coro nuziale di Wagner. D’istinto si volse verso il portone dove, accompagnata a braccetto da suo padre, Alessandra si era fermata un attimo, prima di iniziare la passeggiata più importante della sua vita. Un raggio di sole si era posato sulla sua testa, facendo scintillare la rosa incastonata tra i suoi capelli biondi e a Massimo parve ancora più bella di come la ricordava, con quell’abito bianco che gli parve concepito e disegnato solo per lei. Poi distolse lo sguardo e in un breve frammento di tempo riprese a rivedere ancora più velocemente e nitidamente tutto quello che era successo negli ultimi mesi. Rivide sé stesso sotto casa di Alessandra e percepì distintamente l’istante esatto, il momento in cui avrebbe dovuto baciarla ma aveva rinunciato, scegliendo di non scegliere e mettendo in moto tutti gli eventi che lo avevano portato qui, oggi, seduto a questo banco e non altrove; e poi rivide l’aperitivo durante il quale lei gli aveva confidato che con Stefano era finita definitivamente, e mentre parlava non c’era tristezza negli occhi di Alessandra, ma una luce scintillante che sembrava dirgli “Adesso tocca a te, fatti avanti”.
Ma poi rivide sé stesso nel letto di Sonia, travolto da una miscela esplosiva di rabbia e desiderio di vendetta, scientemente deciso a perdere Alessandra per sempre per mezzo di quell’assurda provocazione. E poi rivide loro due in quella disperata, furente lite, sulla solita Opel Corsa davanti al solito cancello sotto casa di lei, dopo aver tentato inutilmente di chiarirsi; una feroce discussione culminata in un crescendo di reciproche accuse di tradimento, di lancinanti sensi di colpa, di parole sgangherate urlate al vento con l’unico scopo di ferirsi. Due innamorati che si scambiavano i veleni della fine di una storia, senza averne mai assaporato il nettare.

E infine rivide quella famosa lezione di tennis, quella che nel frattempo era finalmente riuscito a darle, e a quello che le disse spiegandole come colpire di dritto: “Fai come Nadal, devi prendere la palla esattamente nel punto più alto dopo il rimbalzo, nel momento in cui non sta né salendo né scendendo, quello è il colpo perfetto. Nel tennis è tutta una questione di timing”.

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