Parmigianino – Gli ultimi anni di un giovane genio – Epilogo

Il carcere, la fuga e la morte

di Massimiliano Renaud

All’inizio del nuovo anno vennero consegnati al cantiere della Steccata tremila fogli d’oro, con i quali Francesco iniziò la doratura dei rosoni ancora da ultimare e i rapporti con la Confraternita sembrarono finalmente distendersi.
La serenità del Parmigianino, però, era destinata a non durare.
La teoria dell’interesse del Papa nei confronti della città di Parma, sostenuta dell’amico Damiano, lo angosciava ogni giorno di più e la frase che Francesco carpì seduto al tavolo di una taverna lo gettò definitivamente nello sconforto: di lì a qualche settimana, infatti, Papa Paolo III sarebbe giunto in città con una folta delegazione di Cardinali e addirittura un piccolo esercito.
La mattina del 13 aprile, giorno in cui Alessandro Farnese arrivò a Parma, Francesco, nonostante fosse terrorizzato dalla presenza di Sua Santità, non riuscì a trattenere la curiosità e scese comunque in strada ad accogliere il corteo che sfilava per le strade.
La città era colma di gente allineata ai bordi delle strade in attesa del passaggio di Papa Paolo III e del suo ricco seguito fatto di religiosi, cavalieri su destrieri drappati, carrozze rifinite d’oro e una lunga schiera di armigeri a protezione del Pontefice.
Ma proprio mentre il Santo Padre si accingeva a raggiungere la Cattedrale annunciato dal suono delle trombe, avvenne un fatto che sconvolse il clima di festa: dal cordone di folla acclamante che costeggiava la strada si staccarono due giovani con il volto coperto da un telo nero che corsero verso la mula bianca cavalcata da Paolo III. Allertate dalle urla improvvise della gente, le guardie pontificie intervennero a protezione del Papa riuscendo nell’intendo di difenderlo e farlo accedere al Duomo in fretta e furia. Durante lo scontro, però, il capitano della guardia pontificia, Giovanni Prementino, rimase riverso a terra in una chiazza di sangue che si allargava sotto al corpo disteso sul terreno.
I due assassini tentarono la fuga ma vennero catturati quella sera stessa e presto si diffuse la voce sull’identità dei colpevoli: si trattava di Massimo Balestrieri e Andrea Baiardi, figlio del cavalier Francesco.
Il Papa fece avviare immediatamente un’inchiesta alla fine della quale vennero formulate accuse che portarono la famiglia del suo protettore, insieme all’intera fazione ghibellina della città, alla disfatta.
La famiglia Baiardi fu infatti depredata di tutti i beni e tutti i membri della casata furono esiliati dalla città.

Parmigianino, temendo ripercussioni da parte del Papa, decise di rifugiarsi in segreto a San Secondo, nel castello di Pier Maria Rossi, dove il conte si era ritirato dopo aver partecipato ad alcune spedizioni al servizio dell’Imperatore Carlo V.
Trascorsi lì alcuni mesi, durante i quali ebbe anche modo di ritrarre il Rossi in persona, Francesco fece ritorno a Parma per riprendere i lavori alla Steccata.
Al suo rientro in città, forse anche in virtù della nuova situazione che negli ultimi mesi si era venuta a creare, ricominciarono le tensioni con i fabbricieri che chiesero ancora una volta la restituzione degli scudi d’oro pagati fino a quel momento, e la mancanza di un protettore che lo difendesse all’interno della Confraternita rese quanto mai vulnerabile la sua posizione.
Le animate proteste di Francesco lo portarono ancora una volta ad ottenere una  proroga fino all’agosto del 1539 ma quando tornò al cantiere della Steccata per terminare il suo lavoro, non si sorprese troppo nello scoprire che i boicottaggi da parte del Dalla Rosa, il quale non voleva in nessun modo inimicarsi Paolo III, e del Bedoli, che nel frattempo aveva ottenuto l’incarico di affrescare il coro e l’abside della Cattedrale, non erano cessati.
Trascorso anche il settimo anno di lavori fra travagli, depressioni, angosce, liti e rimostranze, arrivò l’autunno del 1539 e la decorazione della volta finalmente terminò, mentre la cupola, alla quale i fabbricieri tenevano particolarmente dovendo contenere l’incoronazione della Vergine, non era nemmeno stata iniziata.
Poco prima dell’inizio dell’inverno di quell’anno, utilizzando come pretesto la mancata decorazione del catino, la fazione ghibellina della Confraternita organizzò una violenta ritorsione nei confronti dell’artista.

“Siete voi Francesco Mazzola?”
“Chi lo desidera, di grazia?” Rispose Francesco senza distogliere lo sguardo dal soffitto.
“La Confraternita della Steccata ha sporto denuncia contro l’artista Francesco Mazzola, siete dunque voi l’accusato?”
Francesco si scosse e si sporse dall’impalcatura, solo allora si accorse che a cercarlo erano le guardie.
“Denuncia? E quale colpa avrebbe messer Mazzola?”
“È di inadempienza e furto d’oro che viene accusato. E non fate il furbo, ora che vi vedo in faccia so che siete voi! Scendete dal ponteggio e seguiteci, non abbiamo tempo da perdere.”
Conscio di non poter far nulla per fuggire alle grinfie della legge, Francesco raggiunse terra lentamente e si lasciò portare alle prigioni.

Trascorsi alcuni mesi di prigionia, durante i quali ebbe il solo conforto di Ginevra che corruppe una guardia per poter far visita e portare del buon cibo al fratello, il giorno diciannove del mese di dicembre ricevette una missiva della confraternita. Quando la aprì ed iniziò a leggerla rimase immobile per un tempo indefinito, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle ultime righe vergate sul documento:
Con atto notarile del 19 dicembre 1539, si determina che “maestro Francesco Mazzolo pictore non si abbia più per modo alcuno intromettersi né impaciare de la pictura de la Capella grande de la giesa nova de la Madonna de la Steccata”
Era la definitiva diffida ad occuparsi dei lavori della Steccata.
Senza preoccuparsi se ci fosse qualcosa ad attutire l’impatto, Parmigianino si lasciò cadere al suolo come un corpo morto. Quando raggiunse il gelido pavimento della prigione sentì il tonfo sordo del suo corpo e chiuse gli occhi, perdendo i sensi.

Durante una gelida notte di gennaio, Francesco faticava a prendere sonno tormentato dal ticchettare dei suoi stessi denti che tremavano per il freddo. A un tratto sentì l’eco dei passi del carceriere avvicinarsi lenti alla sua cella e il cadenzato rumore degli stivali, che ormai conosceva bene, si mescolava al suono di voci umane.
Quando il gigante barbuto ebbe fatto scattare la serratura del lucchetto che serrava la prigione, alle sue spalle comparve il volto di Damiano De Pietà.
“Muoviti Francesco, andiamocene!”
“Damiano, ma come…”
“Avrai tutte le risposte che vorrai mentre saremo in viaggio, tieni, copriti con questa pelliccia e seguimi.”
“Ma, seguirti verso dove?”
“Vuoi morire qui dentro? Sono certo che in qualunque luogo ti condurrò vivrai meglio che in questa topaia!”
L’architetto passò una saccoccia piena di metallo tintinnante al carceriere che li accompagnò fino a una piccola uscita secondaria della prigione.
“Dove stiamo andando?”
“Via da questa città, ormai non è più sicura per nessuno di noi.”
“Portami almeno a casa mia, voglio prendere la Madonna col bambino che ho dipinto per Elena Baiardi, mancano solo pochi ritocchi e potrò consegnargliela!”
“Non c’è tempo, Francesco, dobbiamo raggiungere le rive del Po prima che faccia giorno, se dovessero scoprirci saremmo morti entrambi. Manderemo qualcuno a riprendere il quadro, non preoccuparti.”
I due uomini raggiunsero la corte di una dimora disabitata dove li attendevano due cavalli, montarono in sella e partirono al galoppo per fermarsi solo sull’argine maestro del Po, quando il sole stava già per fare capolino all’orizzonte

 
Una volta raggiunta la cittadina di Casalmaggiore, poco oltre il fiume Po, Francesco venne condotto nella tenuta di Fabrizio Chiozzi, capostipite della famiglia guelfa legata al casato dei Rossi che lo avrebbe ospitato.
Nella residenza dei Chiozzi trovò anche Camilla Gonzaga, moglie del conte Pier Maria Rossi, che vi si era trasferita qualche mese prima in attesa che il marito facesse rientro dalla città di Mantova.
Nei primi giorni trascorsi a Casalmaggiore, per procurarsi i mezzi di sostentamento il Maestro accettò di dipingere una pala d’altare raffigurante una Madonna col Bambino insieme ai Santi Stefano e Giovanni Battista, e una Lucrezia Romana, con lo sguardo alto e fiero nell’atto di conficcarsi un pugnale nelle carni per togliersi la vita.
Durante le lunghe ore trascorse a guardare lo scorrere del grande fiume dalle alture degli argini, Parmigianino rifletteva sui fatti dei quali gli arrivavano notizie da Parma e il suo umore precipitava ogni giorno di più verso il baratro.
Era venuto a sapere, a ulteriore conferma che Paolo III fosse un diventato sostenitore della fazione ghibellina, che qualche mese prima Girolama Farnese, nipote del pontefice, era andata in sposa ad Alfonso Sanvitale, figlio di colei che era riconosciuta come il capo della fazione: Laura Pallavicino Sanvitale.
“Damiano aveva ragione” continuava a ripetersi mugugnando a bassa voce “la giustizia che mi ha giudicato ha agito per favorire la fazione schierata con il Pontefice ed io sono vittima di una becera congiura per colpa di una stupida lotta politica…”

Dopo quasi tre mesi trascorsi nel più irreparabile sconforto, Francesco ricevette finalmente una buona novella: il giorno 26 di marzo era stato eletto quale nuovo priore della confraternita il rossiano Pietro Ruggeri.
Francesco fu talmente entusiasta della notizia che per qualche tempo si rigettò a capo chino sui disegni dei freschi del catino della chiesa e li inviò a Parma sperando in un perdono da parte del Ruggeri, ma dalla città non arrivarono nuovi incarichi, soltanto nuove nefaste notizie.
Mentre era incantato a fissare il vuoto oltre la finestra affacciata sulla corte del palazzo dei Chiozzi, un giovane attirò la sua attenzione dalla strada.
Interpellato su chi fosse, il ragazzo disse che portava un messaggio per l’artista Francesco Mazzola. Francesco scese di corsa le scale della residenza dei Ghiozzi e una volta aperto il messaggio vide che era arrivava da sua sorella Ginevra, e lo lesse in tutta fretta. Terminata la missiva si sedette a terra, quasi senza forze, poggiando la schiena sul muro di pietra della casa.
Ginevra, in poche e drammatiche righe, gli comunicava che il consiglio della Confraternita stava per affidare nuovi freschi della chiesa di Santa Maria della Steccata a Giulio Pippi, artista noto in tutta la penisola che, come Francesco, era fuggito da Roma ai tempi del sacco dei Lanzichenecchi.
Francesco, che anni addietro aveva avuto modo di conoscere il pittore romano, gli scrisse un’accorata lettera pregandolo di rifiutare il lavoro perché presto sarebbe rientrato in città per proseguire lui stesso gli affreschi della Steccata. Scrisse anche che soltanto una parte della Confraternita lo accusava, peraltro ingiustamente, e che di recente aveva inviato nuovi disegni del catino al priore neoeletto che, essendo fedele ai Rossi, l’avrebbe sicuramente perdonato e gli avrebbe riaffidato l’incarico di terminare i freschi.
La lettera, però, non ebbe mai risposta perché Francesco si ammalò di una febbre tanto grave da indurlo a fare testamento, che dettò a un notaio il giorno ventuno del mese di agosto.
Nel testamento destinava cento scudi alla sorella Ginevra e il resto del suo esiguo capitale ai tre giovani e fedeli aiutanti che lo avevano raggiunto a Casalmaggiore.
Gli ultimi giorni di vita, Francesco li passò quasi del tutto incosciente, tormentato dai deliri della febbre e quasi non riconobbe Ginevra quando giunse al suo capezzale poche ore prima di lasciarla per sempre.
Alla metà della mattina del ventiquattro agosto dell’anno 1540, dopo giorni passati fra deliri, attimi di lucidità violati dai sensi di colpa e momenti di rabbia nei confronti di sé stesso e della vita che se ne stava lentamente andando, Francesco Mazzola, dal mondo intero conosciuto come il Parmigianino, esalò l’ultimo respiro lasciando al mondo l’eredità immortale della sua arte.

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