Lampostyl

di Irma Nisi

«Lewis Hamilton, chi era costui?». Marcantonio Cerruti, detto Lampostyl, spingeva alacremente il tosaerba lungo il prato dell’Istituto Bonfantini, il prestigioso polo scolastico che aveva diplomato il fior fiore della comunità agricola novarese.
Muovendo la testa dinoccolata al ritmo di ogni sfalcio cercava di fare mente locale e colmare l’ennesimo vuoto.
All’ora della ricreazione aveva sentito i ragazzi fare più volte quel nome, ma a lui non risultava esserci nessuno straniero inserito nell’organico scolastico. Senza procrastinare, perché non era proprio nella sua natura, era andato a verificare in segreteria, e la Carla, scrutandolo da sotto gli occhiali di tartaruga, glielo aveva confermato.
«Eh, magari avessimo Lewis Hamilton qui!» gli aveva detto ammiccando.
«Perché ammiccare?» si era chiesto, «un nome straniero era forse garanzia di bellezza?» Ma anche in questo caso, non si sentiva troppo certo di quel che diceva. E come avrebbe potuto d’altronde, non se li ricordava, lui, com’erano fatti gli stranieri. Da un anno a questa parte non si ricordava proprio di niente se non del vento e del profumo di mare che aveva respirato a Taranto, tanti anni prima, quando aveva fatto il militare in marina. E basta: il resto era scomparso, sparito, dissolto nel nulla. Cinquant’anni quel marzo e di questi solo il ricordo del vento e del mare. Ci aveva anche pensato di tornarsene laggiù, per cambiare un po’ aria, ma il dottore era stato chiaro: «Cerruti, non abbia fretta di ricordare, si fidi di me. Lasci sedimentare i ricordi e vedrà che al momento opportuno torneranno nella sua testa, all’inizio lentamente e poi come un’esplosione. “A difendermi e farmi male, sezionare la notte e il cuore, per sentirmi vivo in tutti i miei sbagli” come cantano i SUBSONICA. Se li ricorda i SUBSONICA? No? Non si preoccupi, se li ricorderà!».
Di certo una vita senza passato risultava parecchio complicata e sebbene Lampostyl seguisse pedissequamente le istruzioni che ogni giorno il suo assistente sociale si premurava di comunicargli (parti dall’angolo e fai una striscia fino in fondo, poi gira, torna indietro e fai un’altra striscia fino in fondo, se si spegne tira forte la corda), erano state tante le occasioni di difficoltà.
Come quella volta che, qualche giorno prima della festa dei morti, il parroco gli aveva detto di andare al cimitero e ripulire la cappella della famiglia Forni Costanti. Da lì avrebbe celebrato una messa in suffragio dell’illustre primo concittadino Augusto, che già nel dopoguerra aveva implementato tutta una serie di procedure per garantire anche ai più bisognosi del paese un’adeguata collocazione post mortem fra le mura del locale cimitero.
Poiché però Augusto si era anche abbondantemente dedicato ai piaceri della vita terrena,
donna Lavinia, di sette anni più anziana del marito, sentendosi prossima alla fine, gli aveva chiesto il favore: «Per essere sicuri, Padre Michele, che io lo voglio rivedere l’amato marito mio quando sarà il momento». Il parroco non aveva capito se per riunirsi a lui per l’eternità o per fargliele pagare tutte, ma non se l’era sentita di negarle la funzione.
Così Lampostyl verso le tre del pomeriggio s’era recato al cimitero e aveva aspettato l’arrivo di Seneca.
Dopo dieci minuti il custode becchino lo aveva raggiunto al cancello e gli aveva detto che l’assistente sociale aveva avvisato che era rimasto a terra con la macchina, che gli dispiaceva, ma che avrebbe dovuto cavarsela da solo.
«E che ci vorrà mai» rispose a Seneca che lo guardava preoccupato «la maestra Titta mi ha raccontato che alle elementari ero parecchio sagace, anche da solo farò tutto come si deve!».
Armato di secchio, stracci e bastone per pulire i pavimenti si era indirizzato verso il settore sud-est del cimitero, dove erano state erette le cappelle delle più importanti famiglie. E già raggiungere la cappella giusta lo aveva caricato di energia. Piano piano, come diceva il dottore, avrebbe recuperato tutto, ma intanto non era stata una pessima idea quella di imparare la rosa dei venti. Almeno alle parole settore sud-est non era sbiancato, che sbiancare davanti al becchino (aveva dovuto imparare di nuovo anche questo termine) non era mai una bella trovata.
La cappella era imponente, sembrava una torretta molto simile a quelle diroccate che si trovano lungo le coste ioniche e che aveva potuto osservare riguardando le foto scattate durante il servizio militare. A dirla tutta era anche piuttosto cupa, con un portone in ferro battuto che avrebbe dissuaso anche i più ardimentosi a entrare. Provò e riprovò a spingere, ma niente, il portone rimaneva fermo lì senza nessuna intenzione di lasciarlo passare.
E questo per lui era un vero busillis, perché sin da quando si era risvegliato dal coma non aveva mai dovuto preoccuparsi di aprire porte e portoni, gli pareva che si aprissero al suo passaggio. Insomma, lì, davanti a quella maestosa cappella aveva capito la piccolezza della sua persona: un individuo alto, prestante, almeno così gli pareva, con un linguaggio forbito che neanche l’amnesia gli aveva rubato del tutto, ma con nulla al suo interno, vuoto a tal punto da non sapere come fare ad aprire un portone. Si era sentito smarrire e ne fu impressionato così profondamente che le lacrime presero a sgorgare copiose e a bagnargli le gote, il mento e finanche il collo. Invaso dalla vergogna e dalla rabbia, il pianto silenzioso si ruppe in un singhiozzare gracidante che a volume sempre più alto pareva rievocare misteriosi richiami amorosi di specie oramai estinte.
E fu così che lo trovò il becchino, richiamato da rumori che mai, in venticinque anni di onorato servizio, aveva udito in tale singolare posto di lavoro.
«Lampostyl! E che è successo?» gli aveva chiesto tradendo un accento dell’est stemperato dai troppi anni trascorsi in quella terra di risaie.
Lampostyl non riusciva ad articolare le frasi, indicava insistentemente il portone di ferro, tant’è che l’uomo si fece convinto che doveva aver visto “qualcuno” o “qualcosa” che lo avesse traumatizzato.
Spaventato tirò fuori dalla camicia il crocifisso d’oro zecchino e si mise a snocciolare nomi di santi e a recitare con devozione preghiere per l’anima pura di Lampostyl: ne aveva viste, lui, di cose strane quando era bambino in Transilvania, sapeva che per calmare i morti l’unica cosa che funziona sono le preghiere e l’immagine del crocifisso benedetto.
Lampostyl non poteva credere ai suoi occhi e nemmeno alle sue orecchie: «Seneca!» gli chiese stravolto: «Ma che stai facendo, che sei impazzito? È stato solo un momento di debolezza di nervi, capita a quelli come me, poi passa. Non c’è bisogno di scomodare tutti questi Santi e di recitare tutto il rosario: prima o poi me lo ricorderò come si aprono le porte».
«Du-te dracu, pulalaule, să te fut!» fu la risposta del becchino che sbottonando la logora giacca di panno marrone che lo copriva, gli mostrò una pesante cintura ad anelli attaccata alla quale pendevano tante e tante chiavi, tutte le chiavi del cimitero.

«E già, mai più mi devo ridurre come quel giorno» si stava mentalmente appuntando Lampostyl mentre concludeva la tosatura dell’ultimo quarto di prato, «non ne vale la pena, si fanno figure da imbecille» E lui non si sentiva un imbecille. Era solo smemorato. D’altra parte cose simili succedevano tutti i giorni: si esce con gli amici, si noleggiano i go-kart, si va a correre sulla pista, ed è un attimo uscire fuori strada e rimanere in coma per un mese.
Oramai se n’era fatto una ragione. Aspettare, doveva solo aspettare, e muovendosi sul prato tagliato perfettamente non si sentì più né stupido, né stupito mentre dubbioso aveva ripreso a domandarsi: «Ma Lewis Hamilton, chi diamine era costui?»

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