Vita di paese

di Irma Nisi

 

Episodio I – TreSSette

 

Come tutti i giorni alle 13.00 il maestro Pelusi, affidato l’ultimo dei suoi scolari alle amorevoli braccia materne, aveva disceso la piccola rampa di scale sul retro dell’edificio e si era incamminato verso casa.
I piccoli piedi, ingabbiati nei mocassini di pelle nera, si muovevano uno davanti all’altro in rapida sequenza, facendo ondeggiare l’orlo del pantalone di gabardine grigio la cui piega appariva, come sempre, perfettamente stirata.
Giunto di fronte al portone di casa suonò il campanello. Nessuno accorse ad aprire e spazientito suonò con più insistenza. Ma anche questa volta la porta rimase serrata.
Innervosito si frugò nelle tasche alla ricerca delle chiavi.
Il portone era stato chiuso con doppia mandata. «Gabriela!» gridò dalla soglia. Ma nessuno rispose e riponendo la giacca con meticolosità sull’appendiabiti di fianco all’ingresso, urlò con irritazione crescente: «Gabriela!». Ma ancora niente. Si tolse le scarpe e infilate le pantofole si diresse verso la cucina.
Tutto era perfettamente in ordine e questo lo tranquillizzò. Detestava mangiare nel disordine e nello sporco.
Un piatto fondo ricoperto da un altro piatto, un cucchiaio, un bicchiere e una bottiglia di Negroamaro occupavano il capo di un ampio tavolo di legno.
«E che è questa storia?» si domandò a voce alta il Pelusi «dov’è finita quella?».
Si guardò intorno, neanche un biglietto e oramai si erano fatte le 13.30 e di cose da fare ne aveva ancora troppe. Perdere tempo non era da lui. Decise di mangiare e di rimandare a dopo ogni indagine.
D’altra parte, se gli aveva lasciato il pranzo pronto voleva pur significare che niente di improvviso poteva esserle capitato. Forse aveva un impegno di cui non ricordava l’esistenza, di sicuro qualcosa con i suoi genitori.
Scoperchiò il piatto e prese a mangiare il passato di verdure ancora caldo, Gabriela non doveva essere uscita da molto.
Si ritrovò a pensare a come era stato bravo con sua moglie, a quanto Gabriela fosse ancora notevolmente migliorata dopo il matrimonio grazie alla sua influenza.
Gabriela… ridacchiò fra di sé. E no, sul nome non aveva potuto fare niente. Quando era venuta alla luce, suo suocero, che a mala pena aveva fatto la quinta elementare, era andato a registrarne la nascita all’ufficio comunale dove lavorava Ciccillo, suo compagno di tressette al bar di Stella.
E Ciccillo, aprendosi nel suo miglior sorriso a due incisivi, gli aveva ricordato la promessa fatta. «Una mano a tressette, chi vince decide il nome» gli aveva proposto qualche mese prima.
«E no» aveva ribattuto l’Arcangelo scuotendo la testa e lasciando ondeggiare il tirabaci corvino, «se è femmina, basta una mano, ma se è maschio al meglio di tre».
E così i due amici avevano aspettato che la gravidanza proseguisse e il parto si facesse sempre più prossimo.
«Ma quanto manca a tua moglie per sgravare?» aveva chiesto Ciccillo solo pochi giorni prima dell’evento.
«La mammana dice che manca poco, Luisella sta preparando le pezze».
«Allora siamo d’accordo, appena sgrava ci mettiamo il nome!»
E infatti dopo due giorni era venuta alla luce una bella bambina, sana e famelica.
«Arcà» aveva detto Luisella al marito «la voglio chiamare Benedetta, che dopo cinque maschi non me l’aspettavo proprio un’altra femmina a fare compagnia a Maria».
«Benedetta? Ma lascia stare con sti nomi antichi. Ce lo metto io il nome alla bambina. Statti tranquilla e lasciami pensare. Vedrai che sorpresa!»
E così se ne era uscito per andare da Ciccillo, tanto era nata femmina e ad Arcangelo dei nomi delle femmine non gliene era mai importato niente.
Fatto sta che a tressette aveva perso e Ciccillo si era arrogato il diritto di scelta:
«Arcà, la chiamerai Gabriella: come l’Arcangelo Gabriele» affermò il compare soddisfatto.
L’Arcangelo e Ciccillo per festeggiare la nascitura e soprattutto l’ingegnosa scelta si erano dati al Primitivo, che sommato al Negroamaro bevuto durante il tressette li aveva resi euforici.
Fu solo per questo che al momento di compilare le carte Ciccillo non fu in grado di scrivere e affidò senza riserve il compito all’altrettanto allegro genitore. Di fatto la bimba non fu mai Gabriella, ma sempre Gabriela, con una elle sola.

 

«Ma dove si è cacciata» si domandò pulendosi la bocca il Pelusi «manco un tozzo di pane mi ha messo a tavola».
Gli stava venendo sonno e si sistemò sulla sedia a dondolo. Mezz’oretta per riposare come tutti i giorni ce l’aveva ancora e mentre cercava di rilassare la sempre vigile mente, continuò a ricordare quanto il povero suocero gli aveva in confidenza raccontato quella volta che erano andati insieme a comprare i loculi al cimitero.
Luisella non sapeva leggere bene e dell’errore non se ne sarebbe mai accorta, ma Maria sì, era già in seconda elementare. E fui lei a chiedere al padre:
«Papà ma perché ci hai dato nome Gabriela?»
Apriti cielo, tutto poteva sopportare la mamma, ma non questo, lei al nome della figlia ci teneva, un nome decoroso, non quel nome da zoccola – Gabriela – come quella ballerina sul giornale che la Gilda aveva trovato nascosto nella borsa del militare di suo figlio, col culo seminudo e due puntini sui capezzoli, che tanto lì in Brasile a Carnevale non faceva neanche freddo.
Luisella, con il seno traboccante di latte che la bambina poppava furiosamente, guardò arcigna il marito.
«Arcà, tu quel nome lo devi cambiare, non è possibile che mia figlia si deve chiamare così. Valla ad aggiungere una lettera, vai ad aggiungere un nome, ma qualcosa la devi fare. O con me hai chiuso, hai capito che vuol dire: hai chiuso».
L’odore di latte che aveva impregnato la stanza, con prepotenza si stava insinuando nel cervello dell’Arcangelo facendogli tornare in mente le dolcissime morbidezze da cui gli era sempre risultato difficile staccarsi: «E no, per una misera elle, una stanghetta fra due stanghette, adesso mi perdo pure il diritto a farmi mia moglie» si disse.
Così l’Arcangelo, lucido e sbarbato come si conveniva, la sera dopo se ne era tornato al bar di Stella sicuro di trovare lì Ciccillo per convincerlo ad aggiustare la cosa. Ma la notizia era circolata – Maria, troppo fiera di sé per aver notato l’errore, era subito corsa a dirlo alla maestra – e come tutte le scarse novità del paese, aveva fatto scalpore: ora pure qua ci abbiamo la brasiliana, si dicevano sottovoce i vecchi seduti ai tavolini guardandolo beffardi.
«Ciccillo, dobbiamo fare qualcosa, Luisella me la farà pagare per sempre, Luisella non me la dà più a vita».
Ciccillo era sì un buon amico, ma sempre e prima di tutto un giocatore, e non si fece scappare l’occasione: «Va bene Arcà, ventun punti, se vinci aggiustiamo le carte, se perdi» e lo guardò con un guizzo negli occhi, «be’, mi farai più spesso compagnia dalla Salomona».
«Ci sto» acconsentì a malincuore l’Arcangelo «ma stavolta facciamo il bongioco».
Non l’avesse mai proposto, perché Ciccillo fra napoli a coppe, tre assi e napoli a spade in successione già alla prima mano si guadagnò nove punti di accusi e balzò in testa con un netto 15 a 5. L’Arcangelo cominciò presto ad innervosirsi.
«Ciccì, sei un cornuto. Si capisce dalle carte».
Ma Ciccillo neanche una piega, era un giocatore sopraffino lui, il re del bar di Stella, di colpi gratis dalla Salomona ne aveva vinti a decine.
«Arcà non te ne curare, facciamo la prossima, vedrai che se vuole, la fortuna gira e le carte entrano.
Ed infatti sembrò per un attimo che la sorte cominciasse ad arridere allo sfortunato genitore.
Dapprima un tris di tre e poi una napoli a denari gli consentirono di portarsi sul 14 a 18. Ce la poteva ancora fare.
Quando Ciccillo gli stese le carte si sentì la fortuna in mano: tre assi. Doveva giocarsela bene, ma sì, ce l’avrebbe fatta.
«E invece, niente! Quel gran cornuto di Ciccillo riuscì a farsi una napoli con l’unico asso che non avevo e chiuse la partita con un fottutissimo 27 a 19, lasciandomi nei guai» fu l’ultima confessione del suocero davanti al cancello del cimitero.
E infatti l’Arcangelo mai gli rivelò cosa accadde poi con sua moglie, se davvero chiuse la porta e non lo fece più entrare. Fatto sta che Luisella decise, come una sorta di contraltare a quel nome che riteneva un’offesa al Signore, di educare sua figlia nella maniera più irreprensibile: nessuno avrebbe mai potuto dire qualcosa sulla sua moralità. E pazienza che crescendo Gabriela aveva fatto onore al suo nome brasiliano mettendo su un posteriore degno di una copertina.
«Ma dov’è finita quella» si disse il Pelusi che pensando al derrière di sua moglie si era ridestato dal torpore post prandiale, «va be’, adesso arriva quel somaro di Cesarino, con Gabriela i conti li faccio quando torna!»

E non finisce qui…

Ni vitimu quantèmnotra vota…

13 thoughts on “Vita di paese”

  1. Il gioco del tresette… che ricordi!!! Complimenti Irma.. aspetto di sapere come va a finire!!!

  2. Naaaaa …E ci lascia così? Ma la moglie dove è andata? Complimenti davvero, l’ho letto tutto d’in fiato

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *