Vita di paese – Episodio 4

di Irma Nisi

Natale

Fu un profumo di ragù a risvegliare Pelusi. Aveva avuto un sonno agitato, cavalli imbizzarriti gli correvano incontro e leggeri come angeli riuscivano all’ultimo momento a schivare l’impatto col suo corpo freddo e sospeso nel nulla. In seguito, ritrovatosi inspiegabilmente all’interno di un essere vivente, aveva assistito all’implacabile lavoro di un cuore che senza sosta batteva e pompava, batteva e pompava il sangue in ogni distretto del corpo. A un certo momento il flusso aveva preso a muoversi nel verso contrario e il sangue, risalendo fino al cuore, aveva investito come un fiume in piena il Pelusi che se ne stava lì impalato e in procinto di vomitare.
Infine, aveva sognato sua madre: brandiva un tizzone incandescente e gli ripeteva che suo fratello all’età sua già da un pezzo si era assicurato la vecchiaia mettendo al mondo due femmine e due maschi di sana e robusta costituzione.
Aprì gli occhi cisposi e il calore del fuoco nel camino gli tagliò la cornea, costringendolo a sbattere le palpebre nervosamente.
Era sudato e allontanò la coperta di lana che lo ricopriva fino alla cintola.
«Ma da dove salta fuori questa coperta» si chiese mentre lentamente riacquistava la lucidità «e ‘sto profumo?». Si alzò di scatto e trascinando le gambe intorpidite spalancò la porta della cucina. Sul fornello spento, da una pentola ancora calda si liberava quell’odore speciale che solamente il ragù di sua madre sapeva creare: il profumo di carne ammorbidito dalla dolcezza delle carote, intensificato dalla freschezza del sedano, ed esaltato dal tris di cipolle che giungeva da ultimo a pungere il naso e innaffiare gli occhi. Ma sua madre non c’era più, non poteva essere lei, e se non era lei, una sola persona era in grado di riprodurre fedelmente la ricetta. Pelusi si appoggiò alla sedia, gli mancava il coraggio di muoversi. Respirò una, due volte e si sedette. Strofinando le mani sulla piega ancora perfetta dei pantaloni cercò di pensare, ma all’improvviso anche pensare gli divenne faticoso. Si alzò di scatto e si fiondò in camera da letto. E lei era lì. O meglio, nel buio delle prime ore del mattino poté intravedere una sagoma adagiata sul lato sinistro del letto, ma la forma che la coperta disegnava non lasciava spazio all’immaginazione: quello poteva essere solo il culo di Gabriela!
Sarà stato il ragù, la coperta sulle gambe, il fuoco acceso a scaldare la stanza vuota, o la sagoma a pochi passi da lui, fatto sta che la ruvidità e la superbia, connotati propri della sua natura, andarono a rinchiudersi in uno spazio piccolo e periferico della mente lasciando il posto alla tenerezza e alla gioia per la presunta paternità.
Salì sul letto dai materassi troppo alti e si distese dietro sua moglie, cingendole la vita. E con lei al suo fianco si addormentò, stavolta in un sonno senza incubi, ricco di profumi e di speranze.
Quando la luce del mattino giunse a svegliarlo, Pelusi si ritrovò nella stessa posizione in cui si era addormentato, ma di nuovo solo. Si tirò su temendo che gli ultimi ricordi di cui aveva memoria fossero in realtà solo il frutto della sua disperazione. Rigido sul letto, cercò di cogliere i suoni che provenivano dalla casa. Ma nonostante gli sforzi non riusciva a captare alcun rumore.
«Sto diventando pure pazzo» disse sconsolato ad alta voce.
«Buongiorno!». Una voce da contralto lo fece trasalire, ma fu solo un attimo perché sua moglie aveva già attraversato la porta e posato sul comodino un vassoio di legno. Gabriela, sciolto l’unico cucchiaino di miele ammesso, gli porse timidamente la tazza fumante e rimase immobile e silenziosa, avvolta dall’aroma di caffè.
Pelusi, ancora una volta e nell’arco di poche ore, non sapeva cosa dire. La osservava, le guardava gli occhi, le guardava il ventre cercando conferme, ma la pancia era piatta come sempre e lo sguardo non tradiva quel languore che da sempre aveva associato alla gravidanza.
«Cammina!» disse infine.
«Cammina?» gli domandò con voce tremante «Nel senso che me ne devo andare?».
Pelusi sospirò, Gabriela era sempre Gabriela: al volo non capiva quasi niente.
«Ma no! Cammina avanti e indietro per la stanza, dai».
Gabriela cominciò a mettere un piede davanti all’altro come su un’ipotetica passerella: dalla finestra alla porta, dalla porta alla finestra, dal letto all’armadio, dall’armadio al letto fino a quando esclamò: «Mi fa male l’anca, marito mio, mi posso sedere?».
Pelusi le corse incontro e scuotendola con vigore le disse: «Ma allora è vero, è proprio vero? Tulore te anca…»
Gabriela sedette sul letto e le sue dita presero a tormentare la coperta; senza parlare, senza neanche guardarlo in faccia gli disse: «Sì, sono sicura, sono piena».
In quel momento Pelusi avrebbe desiderato fumare, qualche boccata, una sensazione nuova a schiarirgli le idee, ad aiutarlo a capire se concedersi la felicità fosse opportuno oppure no. Si sfregò le mani sui pantaloni, il meglio che sapeva fare, e senza parlare accarezzò la guancia di Gabriela, le prese la mano destra e le disse: «Dove sei stata tutto questo tempo? Che bisogno c’era di nascondersi? Eri agitata? Lo capisco. Eri sconvolta? Per forza, dopo tanto tempo e tanti sacrifici!»
Gabriela lo guardava, la bocca si apriva e si richiudeva ogni volta che il marito si fermava a prendere fiato e lui, partito in un lungo monologo, non aveva bisogno di risposte, voleva certezze, le sue certezze e se le stava costruendo sillaba dopo sillaba. A Gabriela solo il compito di annuire.
«Che bisogno c’era di andare da Maria, era qui che dovevi correre, non da tua sorella, da tuo marito e da nessuna altra parte. Mo’ preparati, il funerale di Don Aurelio è fra un’ora. Per adesso non è prudente informare nessuno, ma scaduti i tre mesi mettiamo il bando, tutto il paese lo deve sapere, tutto il paese lo saprà». E dopo aver baciato la moglie sulla fronte, si andò a rinchiudere nello studio in cui, fra un Cicerone e un Catullo, quotidianamente riceveva i suoi studenti e lì, piano piano e in silenzio, riacquistò la lucidità.

*****

Fino alle dieci di quella mattina nessuno più ricordava quanta gente potesse contenere il piazzale antistante la Chiesa Madre, a parte i superstiti dell’estate del terremoto quando per una mesata la popolazione della parte bassa del paese non ne aveva voluto sapere di rientrare nelle case e, complice il caldo agostano, aveva trasformato la piazza in un dormitorio a cielo aperto con i materassi buttati sul selciato e la luce della luna a far calare nei cuori della gente un po’ di tranquillità.
Pelusi e Gabriela furono fagocitati dalla folla in attesa del feretro.
Gabriela camminava con gli occhi bassi sottobraccio al marito. «Entriamo» disse Pelusi «così ti levi da questa bolgia». Mentre attraversava la navata laterale della chiesa per raggiungere il banco di famiglia, si sentiva osservato, ma decise di non darci peso, erano altri adesso i suoi pensieri. Aveva colto qualche mezza frase e cercava di capirne il senso. Ignorava che il corpo esanime di Don Aurelio fosse stato trovato da zia Pasana vicino alla casupola in cui la vecchia viveva, in contrada Bellavista.
«È stata Zia Pasana a chiamare i carabinieri. Pare che mentre raccoglieva le erbe fuori da casa sua abbia visto la macchina del dottore» sentì dire.
«Le erbe? Figurati! Ma quando mai quella esce di casa, che tiene la faccia grigia come i morti» fu la risposta incalzante. «Sicuro che quando ha sentito arrivare la macchina del dottore ha voluto spiare, quella mica se lo dimentica che il dottore non l’ha voluta da giovane. È possibile pure che gli abbia dato qualcosa lei».
Dal banco a fianco si sentì bisbigliare: «Ma che state dicendo, zia Pasana non c’entra proprio niente. Anzi ha sempre portato rispetto al defunto e a donna Olivia, che se lo lasciava così come lo aveva trovato chissà che cosa non avrebbe detto il paese».
Pelusi stava proprio pensando che le pettegole manco per i morti portavano rispetto quando il portone della chiesa si spalancò e la cassa, sorretta da otto giovani tutti vestiti di nero e con le scarpe lucide, fu portata ai piedi dell’altare. Per un attimo, ma solo per un attimo, gli parve che Toni il macellaio, l’ultimo di sinistra a chiudere la fila, passandogli accanto avesse indugiato con lo sguardo un istante di troppo su sua moglie, ma scacciò questo pensiero con un gesto della mano. Lui a queste cose non doveva più pensare, si disse, facendosi il segno della croce. Certo che ce n’era di gente: intanto, sei chierichetti ai funerali di sua mamma non li aveva visti. Poi così tanti fiori che manco a un matrimonio, e il coro: avevano pure fatto venire la soprano dalla città. Si vedeva che donna Olivia voleva chiudere la bocca alle malelingue, che non si dicesse che non aveva onorato suo marito fino alla morte. La densa nube d’incenso asperso durante la funzione cominciava a togliergli il respiro. Alle sue spalle qualcuno raccontava che il dottore aveva trascorso gli ultimi istanti di vita nell’abitacolo della sua auto in compagnia di una misteriosa presenza femminile .
«Ma tu lo sai chi era quella che stava con lui? Dicono una forastiera, ma secondo me è una di paese. È che zia Pasana la casa non la vuole lasciare, Don Aurelio gratis la faceva stare e mo’ lei col silenzio si vuole comprare donna Olivia. Come se le cose qui non si sapessero. Il segreto di Pulcinella!».
«Zitta, che il morto stanotte ti viene a prendere. Cuciti la bocca e pensa ai fatti tuoi. Piuttosto» e la voce si abbassò talmente che Pelusi dovette indietreggiare col busto per sentire «l’hai vista Gabriela? Si tiene l’anca con la mano. Tulore te anca…».
«E vorrà dire che i miracoli esistono. Chi semina raccoglie, può essere che alla fine il campo è stato seminato».
E dunque la notizia già stasera avrebbe fatto il giro delle case. Pelusi rilassò le spalle e soddisfatto prese a concentrarsi sulle parole di circostanza pronunciate dal nuovo parroco, fresco sostituto di Padre Antonio che il mese prima era fuggito con la corista gospel della parrocchia vicina per aprire una polpetteria al Nord.
Anche Maria aveva ascoltato immobile tutto ciò che le pettegole avevano sussurrato a voce un po’ troppo alta e tanto più le parole si susseguivano, tanto più il suo sguardo diveniva ironico.
Zia Pasana aveva chiamato lei quando aveva trovato il dottore. Anche se non era di turno Maria aveva indossato la divisa dei vigili urbani e si era fiondata a Bellavista. Aveva trovato Don Aurelio già morto e non aveva potuto fare altro se non chiamare i carabinieri. Nell’attesa che questi sopraggiungessero, la vecchia le aveva raccontato come erano andati i fatti: «È arrivata davanti alla finestra di casa mia gridando parole incomprensibili. Le ho aperto la porta e ho cercato di calmarla, ma lei mi ha trascinato fuori di casa e mi ha portato alla macchina del dottore, al cui interno Don Aurelio giaceva ormai passato a miglior vita».
«Zia Pasana, tu non lo hai toccato, vero? Non è che lo hai sistemato?» le aveva chiesto Maria preoccupata.
«No Marì, che stai dicendo, così l’ho trovato e così l’ho lasciato. La poveretta si reggeva il fianco, si vedeva che provava dolore, e con grande fatica mi ha detto che mentre gli stava dando la notizia lui si è sentito male. In pochi istanti si è stretto le braccia intorno al petto ed è diventato tutto nero, poi ha reclinato la testa all’indietro e non c’è stato più per nessuno».
Sulla discrezione di zia Pasana si poteva contare: nonostante le illazioni, la matematica certezza che nell’ultimo istante della sua esistenza Don Aurelio non fosse da solo, nessuno ce l’avrebbe mai avuta. Con buona pace di tutto il paese. Però Donna Olivia che fretta aveva? La camera ardente era rimasta aperta solo poche ore. Dopo una vita costretta ad ignorare i tradimenti del marito, non le sembrava vero di sotterrarlo quanto prima e godersi l’esistenza fra figli – i suoi – e nipoti in tranquillità, che un marito così libertino in casa non doveva essere stato facile da sopportare.
Il rito funebre oramai volgeva al termine, le autorità del paese avevano sfilato silenziose, e ossequiose avevano reso omaggio all’illustre compaesano con elogi pubblici degni di un primo ministro. E nessuno si era tirato indietro: il presidente della cantina sociale, il direttore della banca, il notaio, il sindaco ovviamente, ma a conquistare l’attenzione più di ogni altro era stato l’onorevole Giancarlo Paglietta, approdato al Parlamento con l’ultima legislatura e lanciato verso una folgorante carriera. Si era precipitato da Roma viaggiando durante la notte: Don Aurelio il cognome non glielo aveva dato, ma la voglia di tarallo sulla natica sinistra era un segno di appartenenza ben più forte. L’onorevole era venuto su puttaniere e filibustiere come suo padre e adesso finalmente poteva rubare la scena a quegli altri lavativi dei suoi mezzi fratelli che, protetti dall’aura paterna, facevano la vita da signori. Il suo elogio fu così commovente che le donne in chiesa attaccarono a piangere e andarono avanti fino a quando il prete congedò l’assemblea e la chiesa piano piano prese svuotarsi, mentre un cordone informe di gente salmodiante si apprestava a seguire la bara fino al cimitero.
Gabriela, commossa, avanzava a fatica, Pelusi la lasciò camminare per un bel pezzo e poi le disse: «Sei stanca e nelle tue condizioni non è il caso di affaticarsi oltre. Ti accompagno a casa, tornerò da solo al cimitero, Donna Olivia capirà». Mentre il paese intero osservava di soppiatto la donna staccarsi dalla folla reggendosi il fianco, Pelusi cominciò ad assaporare il piacere della rivalsa, sentendosi ancora una volta di ringraziare il defunto, poiché solo lui era riuscito dove niente aveva potuto.

Epilogo

Giunse la vigilia di Natale, il fuoco nel camino riscaldava la camera da letto e liberava nell’aria l’odore fresco delle bucce di mandarino posate sulla cenere.
Seduta sul letto Gabriela reggeva fra le braccia Concepita che dormiva attaccata al suo seno. La fatica del parto, ventisei ore di urla e contrazioni, avevano piegato la sua bellezza selvaggia, lasciandole in dono una morbidezza languida e sensuale.
«Chissà se da grande le assomiglierà» si domandò Pelusi perplesso. Contento era contento anche se era nata femmina, certo, se fosse nato maschio sarebbe stata tutta un’altra storia. Ma il tempo era suo alleato, Gabriela giovane e forte e soprattutto lui sapeva il fatto suo: avrebbe pagato tutte le braciole necessarie e alla fine anche Achille Pelusi sarebbe arrivato.
Rinvigorito dalla nuova prospettiva, si avvicinò alla moglie che ad occhi socchiusi aveva abbandonato la testa contro la spalliera del letto: «Finiti i quaranta giorni di riposo ci rimettiamo al lavoro, che tanto adesso sappiamo come si fa e chissà che Toni il macellaio stavolta non ci venga pure incontro!»
E mentre le campane della chiesa suonavano gli ultimi rintocchi prima della Santa Messa, baldanzoso uscì dalla stanza, fiero come nessun altro della sua fresca paternità e di tutte quelle che da adesso in poi sarebbero potute arrivare.
Gabriela, incredula di ciò che le sue orecchie avevano appena udito, si affrettò a nascondere con la copertina la voglia di tarallo sulla coscetta sinistra di Concepita.
Appena sentì sbattere il portone si alzò dal letto e guardò dalla finestra sognando di scoprire la via imbiancata dalla neve, ma fuori tirava vento di scirocco e le case, gli alberi, le strade, tutto era soffocato da un manto pesante di umidità.
Anche lei si sentiva soffocare e chiusa bruscamente la tenda, si sedette sul bordo del letto. Posò lo sguardo sulla piccola addormentata e pensò a quanto aveva penato per averla.
Un groppo alla gola la attanagliò, cadde genuflessa e a mani giunte implorò: «Madonna mia, fammi tu la grazia, dammi un maschio e te lo giuro su mia madre, sua mia sorella, su mia figlia, e su quello che speriamo vorrà arrivare, che a Giancarlo Paglietta dopo non lo vedo più, promesso!».
Si rialzò, si risistemò a letto e stretta alla bambina si disse: «Chi vuol bella famiglia, deve cominciare dalla figlia». Avrebbe parlato a zia Pasana, lei sì che con le erbe giuste l’avrebbe aiutata a sistemare la faccenda. Così rasserenata si riaddormentò cullata da sogni di neve, alberi imbiancati e tanti buoni taralli da mangiare.

Stava na vota nu ciucciu e na malota. Ce lu uè cuntatu n’otra vota?

6 thoughts on “Vita di paese – Episodio 4”

  1. Veramente ben scritto, nonostante il “tulore te occhi..” per colpa dei caratteri piccoli.
    Brava NIsida

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